Morì, domani, due anni fa. Morì per troppo amore. La moglie, i figli, la famiglia. Soprattutto la moglie. Non riusciva a sopportare la morte, di lei, e poi non riusciva a sopportare la vita, senza di lei.
Arnaldo era Pambianco anche nel cognome. La purezza, la semplicità, l’umiltà. La leggenda del garzone di macelleria che, giacchetta e bicicletta, recapitava pacchi e pacchetti. La genesi del corridore, incantato da Fausto Coppi, che infine lo invitò (“Siamo tutti e due ciclisti”) a dargli del tu. La storia del dilettante, forte dovunque ma fermo in volata, argento ai Mondiali, a un solo passo dal paradiso. La carriera da professionista, cominciata in una squadra, la Legnano, che lo aveva sedotto regalandogli qualche tubolare, e con un direttore sportivo, Eberardo Pavesi, che pipa in bocca e basco in testa, appena si sedeva nell’ammiraglia si addormentava. La vittoria al Giro d’Italia, nel 1961, nata sul Muraglione, fra Romagna e Toscana, e conquistata fra i muri, di neve, dello Stelvio. E poi gregario di lusso, anche al Tour de France, quattro partecipazioni, settimo nel 1960, mai fuori dai primi 25, conferma di qualità, resistenza, orgoglio. E poi diesse umano, anche di Felice Gimondi, alla Salvarani. E poi vecchia gloria schiva, riservata, modesta.
Pambianco è già stato raccontato. Libri (“1961 – l’anno in cui vinse il fantasma di Coppi” di Marco Ballestracci, Ediciclo, "Arnaldo Pambianco, il campione e l’uomo” di Maurizio Ricci, Gegraf e “C’era una volta la Salvarani” di Alessandro Freschi e Paolo Gandolfi, Kriss), docufilm (“Gabanì – due volte campione” di Riccardo Salvetti), articoli (anche qui: https://www.tuttobiciweb.it/article/2022/07/08/1657263837/ora-del-pasto-pambianco-figurina-corriere-piccoli). Il ciclismo coltiva, allena, irrobustisce la memoria. Una memoria sentimentale e diffusa. Pambianco ne è fra i protagonisti. E non solo a Bertinoro, dove si staglia un murale ricco di affetto e rispetto. Anche il nostro.