Se n’è andato all’ultimo tentativo di fuga. Stavolta non è stato inseguito, non è stato ripreso, acciuffato, catturato. Ed è arrivato al traguardo. Aveva quasi ottantasette anni. Fuori ne dimostrava almeno dieci se non quindici di meno. Dentro, chissà.
Arnaldo significa colui che ha la forza di un’aquila. Pambianco ispira la figura di un antenato panettiere o fornaio. Arnaldo Pambianco partì garzone in bicicletta e arrivò maglia rosa al Giro d’Italia, da campione per tenacia a gregario di lusso, direttore sportivo e uomo buono, dolce, generoso. Quando gli dichiarai la mia passione – la sua figurina, ritagliata dal “Corriere dei piccoli”, era la vincente predestinata delle corse che organizzavo sul pavimento della mia camera -, sorrise un po’ incredulo e forse un po’ anche grato. Incontri, telefonate, interviste, racconti: mi illudevo che, magari proprio grazie a quell’antica passione, avesse per me uno speciale riguardo.
I ricordi di Pambianco spalancavano il Novecento: “Professionista dalla fine del 1957, il 1958 era il mio primo anno. Ero passato con la Legnano perché la Legnano, ai dilettanti più forti, forniva una bicicletta, regalava qualche tubolare e dava un po’ di assistenza. Così, poi, per gratitudine, per riconoscenza, le si rimaneva attaccati. Ma anche se il nome era storico e suonava importante, la squadra non era più un granché. Il direttore sportivo era sempre lui, Eberardo Pavesi, l’Avvocato, lo stesso che aveva guidato Brunero e Binda, Bartali e Coppi. Però non si era più aggiornato. Mai che ci desse un consiglio tattico, mai che ci regalasse un’indicazione strategica. Quando la tappa partiva, Pavesi saliva in macchina e, basco in testa e sigaro spento in bocca, si addormentava come un bambino”.
I racconti di Pambianco illuminavano la storia: “Coppi, lo vidi per la prima volta al Giro di Sardegna del 1958, perché la prima tappa, la Roma-Civitavecchia, si faceva sul continente per far capire che la Sardegna non era poi così staccata e lontana dal continente. Non vedevo l’ora di poter guardare Coppi da vicino. Così lo cercai e, quando finalmente lo trovai, mi feci largo tra corridori e biciclette e mi piazzai accanto a lui, divorandolo con gli occhi. Lui se ne accorse, si girò e mi domandò se volessi qualcosa. Gli spiegai: lei era il mio idolo fin da quando ero piccolo. Gli dichiarai: adesso che sono qui, vicino a lei, addirittura parlando con lei, è una soddisfazione enorme. E gli confessai: sono emozionatissimo. Lui sorrise, poi mi disse: Pambianco, siamo tutti e due in bici, tutti e due ciclisti, e allora diamoci del tu”.
I segreti di Pambianco svelavano un mondo: “Giro di Campania del 1959. Mi invitò nel suo albergo, mi fece massaggiare da Biagio Cavanna, il suo scopritore, e Cavanna emise la sua sentenza: è un bell’atleta, ma un po’ grasso. Poi Coppi mi spiegò: Pambianco, tu corri come un dilettante, vai sempre in fuga, ma vieni sempre ripreso, e sai perché?, perché devi andare in fuga ma più vicino al traguardo, hai una bella sparata, cerca di sfruttarla. Aveva ragione. Ma gli risposi: se avessi la squadra, lo farei, ma non ce l’ho, la mia è una squadra dove non ci sono capitani e non ci sono gregari, dove ognuno corre per conto suo, alla rinfusa, alla garibaldina, e io vado in fuga per mettermi in mostra”.
E la sincerità di Pambianco rivelava la vita: “Vuole sapere dov’è la mia prima maglia rosa, quella conquistata al Giro del 1958? Sparita. Quando tornavo a casa da una corsa, mancava sempre qualcosa. Maglie, pantaloncini, cappellini, guanti. Domandavo: che cos’è successo? Mio padre mi spiegava: è passato un ragazzo, mi ha chiesto se potevo dargli un indumento, poi è passato uno sportivo, mi ha chiesto se potevo dargli un ricordo, poi è passato un appassionato e mi ha chiesto se potevo dargli un cimelio”.
Diciamoci la verità: l’ultima fuga di Pambianco è insopportabile.