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L'ORA DEL PASTO. VI RACCONTO LA MIA FRANCE, PAROLA DI ZANDEGU' - 2
di Marco Pastonesi | 30/06/2023 | 08:08

Tour de France 1969, 130 partenti, io – tanto per mettere le cose in chiaro - dorsale numero 130, non più squadre nazionali ma commerciali, noi della Salvarani eravamo una multinazionale commerciale all’avanguardia con direttori sportivi meccanici, massaggiatori e perfino cuoco. Sette italiani (Balmamion, Carletto, Ferretti, Guerra, Panizza, Poggiali e io), due tedeschi (Altig e Peffgen) e un bergamasco – ho sempre pensato che i bergamaschi, specialmente i corridori bergamaschi, siano quasi una categoria superiore, metà italiani e metà tedeschi -, ovviamente Gimondi, il nostro capitano, che aveva appena vinto il suo secondo Giro d’Italia. Ventidue tappe, ma tre erano doppie, cioè con due semitappe, e allora se ancora so fare di conto, le tappe erano venticinque. Per un totale di 4110 chilometri, credo un record. Che cosa ho fatto di male?, mi chiedevo, e stavolta non trovavo nessuna risposta.

Si cominciò a Roubaix con una crono, Altig s’impadronì della maglia gialla, tutti noi pensavamo che sarebbe stato solo l’inizio di una marcia trionfale. Non ci sbagliavamo: noi marciavamo, ma Eddy Merckx volava. Al Giro era stato escluso dopo la tappa di Savona, aveva giurato vendetta, e vendetta fu. Avrebbe stravinto. Primo nella classifica a punti, primo in quella della montagna, primo anche in quella a squadre, primo in sei tappe e primo nella generale. Se ci fosse stata la classifica per il più bello, avrebbe vinto anche quella. I distacchi furono abissali: 17’54” al secondo, Pingeon, 22’13” al terzo, Poulidor, e quasi mezz’ora al quarto, Gimondi. Forse il più grande Eddy Merckx della storia. Un Merckxone. In una tappa pirenaica, con tanto di Peyresourde, Aspin, Tourmalet, Aubisque e forse qualche altro colle che non ricordo più perché pedalavo in stato di incoscienza, Eddy, già con la maglia gialla cucita addosso, vinse dopo una fuga – una fuga solitaria – di centotrenta chilometri. Lui davanti come se fosse a cronometro e tutti noi dietro come se fossimo una cronosquadre fatta a pezzi. E ci travolse.

Corsi quel Tour in maniera sentimentale. In salita, per il terrore di arrivare fuori tempo massimo, non mollavo.

Tant’è che alla fine fui – mica male - trentaseiesimo, a più di due ore da Merckx, ma davanti a un regolarista come Balmamion e a una sicurezza come Poggiali. Tenendo in salita, non ne avevo più in volata. La terza tappa, volatona, giunsi quarto. La quarta tappa entrai nella fuga giusta, mi sentivo in forze, ma a una decina di chilometri dal traguardo, su un ponte in pavè, mi cadde la catena, persi 50 metri prima di fermarmi, ne avevo persi altri 100 quando risalii sulla bici, cercai di rientrare, rientrai, ma non su Van Looy, e fui terzo. Poi collezionai altri inutili piazzamenti: un quinto, due sesti, un settimo e un ottavo posto. La tappa in cui inseguivo da solo i fuggitivi, la gente mi gridava “xe paduàn”, o qualcosa del genere. Mi eccitai: è pieno di connazionali, di compatrioti, di compaesani. Poi mi inorgoglii: mi conoscono anche qui. Poi mi galvanizzai: fanno tutti il tifo per me. All’arrivo lo dissi a Luciano Pezzi. Lui fu sbrigativo: te lo spiego in albergo. E in albergo mi spiegò che non mi gridavano “xe paduàn”, ma “c’est ne pas loin”, non è lontano, riferendosi al gruppetto. Avrei preferito non saperlo. Comunque bisogna ammettere che i francesi storpiavano tutti i cognomi, Gimondì Altìg Panizzà, ma il mio lo azzeccavano, Zandegù, anche se con la u stretta, a culo di gallina.

Il penultimo giorno era prevista una tappa, eterna, di 329 chilometri e mezzo. La sveglia alle sei e mezzo. Da Gino Maioli, il massaggiatore, mi feci dare qualche spicciolo, andai in una panetteria, comprai una baguette, la più lunga, un metro, la infilai nella tasca posteriore, copriva la schiena e arrivava fino alla testa, andai al foglio firma, giornalisti e fotografi si scatenarono, spiegai che a tappa lunga corrispoindeva panino lungo, il giorno dopo la mia foto campeggiava su tutti i giornali.

Ci tenevo ad arrivare a Parigi e ci arrivai. Se fossi stato meno mona, ci sarei arrivato con una vittoria di tappa. Che, devo confessarlo, mi manca.

(fine della seconda puntata – fine)

(la prima puntata QUI)

 

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