Quante volte l’avevo visto da piccolo quello scudo con la scritta per traverso. Bello, colorato, elegante. Soprattutto belle le bici sulle quali era impresso. Biciclette ce n’erano ancora un sacco a quel tempo, di tutti i tipi, quelle da corsa un po’ meno. Negli anni Settanta averne una voleva dire avere soldi e io non ne avevo. Il carbonio cinese era là da venire, il titanio non si sapeva nemmeno cosa fosse, dell’alluminio qualcuno ne parlava, quindi c’era solo l’acciaio, prendere o lasciare, saldato a mano, lavorato artigianalmente e, a rigor di logica, caro. La Bianchi con il suo verde caratteristico era un sogno per pochi ma, per fortuna, c’erano anche gli artigiani locali. Uno di questi era proprio Iride o meglio Gemmati Velocipedi.
Ora come allora la fabbrica, fabbrica per modo di dire, sta a Teglio Veneto, frazione di Portogruaro, un chilometro o forse meno dal confine col Friuli. Umberto, Mario e Carlo, tre generazioni, dal 1919 ad oggi. Domani forse no, perché Carlo è separato, non ha figli e ti dice solo, senza troppo crederci “Chissà, a questo punto, solo se arrivasse un figlio dello spirito, della passione… ma è dura, perché questo mestiere è duro”. Ora sono rimasti lui e ‘do tosi’ due ragazzi, in là con gli anni, oltre alla signora Flavia, la madre di Carlo. Ai tempi di Umberto, il nonno, ce n’erano un’ottantina, in quella casa di Teglio, sempre la stessa, che era diventata ben presto fabbrica.
Era il 1919, in quell’anno cominciava l’avventura imprenditoriale di Umberto che già poteva vantare una vita di avventure. Nato a Venezia da una relazione segreta, si dice, fra un avvocato, il classico ‘principe del foro’, e un’addetta all’Ambasciata d’Egitto a Roma, Umberto finisce adottato da una coppia già con figli, casellante di ferrovia a San Vito al Tagliamento. Due anni, il tempo dell’allattamento, poi il bimbo andava restituito all’orfanotrofio, così si faceva a quel tempo.
Un nobile del posto, Luigi Bellati, aveva l’abitudine di passare con il suo calesse trainato da una cavallina bianca da quelle parti. Le sbarre del passaggio a livello sono abbassate, si aspetta il treno, che chiaramente non arriva. La casellante è fuori casa che piange, i due anni sono scaduti, bisogna ridare il bimbo. Il conte Bellati è sposato e senza figli, lei lo sa, e ci prova “Perché non lo adotta lei?”. No, ni, in pochi giorni è sì, Umberto trova ospitalità dai nobili Bellati, dove cresce. La passione per la bici nasce subito e cominciano le prime corse in Friuli e a Portogruaro. Ma, nobiltà o no, il lavoro lo porta presto lontano, in Belgio, in Francia, dove troverà impiego in una fabbrica di cannoni. Un incidente e Umberto ancora giovane si ritrova con una gamba in meno, ma con lo stesso entusiasmo e la stessa voglia di fare.
Esonerato dall’arruolamento nel primo conflitto mondiale, si trasferisce a Milano insieme alla fresca sposa Giannina, veneziana, insegnante, che ha ottenuto una cattedra là. E là Umberto entra alla Dei, azienda leader nella produzione di biciclette, divenendone ben presto capofficina. Nel 1919 nuovo trasferimento per Giannina, questa volta a Portogruaro, e Umberto, forte dell’esperienza alla Dei, decide di provarci da solo: nasce a Teglio un’officina di riparazione bici e vendita cicli marchio Dei. Dopo qualche mese prende vita il marchio Iride e, con esso, la bicicletta sportiva Gemmati: “Ancora adesso resta quel mistero – spiega il nipote Carlo – perché Iride? A quanto ne so dovrebbe essere un nome di donna, e la cosa non deve aver fatto piacere alla nonna, ma questo è, Iride Umberto ha voluto, e Iride è stato”. E Iride diventa un marchio conosciuto in Friuli, in Veneto, ma nell’intera penisola, con rappresentanti anche in Campania e in Sicilia.
Nel capannone dove ora ci sono solo Carlo, sua madre e ‘do tosi’ c’erano, al massimo dello splendore, 74 operai e uscivano 15 mila bici all’anno. Bici da passeggio, da strada, ma anche sportive, perché quella è la vera sfida, dove si vede, si sente la qualità. Una qualità attestata da visite speciali, che rimangono nei ricordi di Umberto e poi nella memoria di Carlo: “Anche il grande Bottecchia venne a trovarci, per incontrare appositamente il nonno. Pare gli abbia detto ‘Volevo comprare la sua bici in un negozio, ma ho preferito venire da lei in fabbrica. Perché volevo anche complimentarmi per quello che fa’”.
Anche Coppi ha cavalcato una Iride: “Pochi giri di pista, certo, per l’inaugurazione del velodromo di Portogruaro, ma ci è montato davvero, e la bici è ancora qua”. A toccarla quella bici fa impressione: ti aspetteresti un ‘cancello’ da una ventina di chili e invece ne pesa sette e mezzo: “Tubi da 0,4, costanti, una meraviglia, come abbiano fatto a saldarli è qualcosa di unico. Certe partite di acciaio arrivavano direttamente da magazzini dell’aeronautica. E per saldarli si usavano anche dei bossoli di cannone tagliati a listarelle”.
Da Umberto l’attività passa a Mario, primo figlio maschio dopo Anna e Antonietta. L’attività funziona ancora, anche dopo la seconda guerra mondiale, e anche dopo la morte precoce di Mario, che se ne va a causa di un incidente stradale. Ci pensa allora la moglie Flavia, anche lei maestra fino a quel momento, a prendere in mano la Iride: “C’erano ancora cinquanta dipendenti, tutti in regola” ricorda orgoglioso Carlo. Poi però arriva l’industrializzazione, il boom, la Cinquecento, e le bici vengono messe in soffitta. I figli di Carlo e Flavia, Umberto e Carlo, scelgono strade diverse: il primo studia e diventa ortopedico, il secondo decide che vuole ancora saldare, nonostante tutto.
E’ difficile spiegare cosa vuol dire saldare l’acciaio. Si devono prendere delle tubazioni del materiale desiderato, una lega metallica di ferro e carbonio spesso unita a metalli più nobili come molibdeno, niobio, vanadio o manganese. E poi si comincia a tagliare, sgolare e limare e quindi si passa alla saldobrasatura delle congiunzioni fra tubazioni. Dopo, una volta composto il telaio, si passa alla realizzazione delle filettature e alla fresatura dei piani dei cannotti di sterzo e del movimento centrale, per garantirne la perfetta planarità. Infine il telaio viene sabbiato per eliminare i residui di lavorazione e, solo a quel punto, si va in verniciatura: “Non so se posso dirti che tutto questo è qualcosa di bello, penso che sia più una malattia. Vedere un telaio che nasce, che prende forma è qualcosa di unico ogni volta. E’ qualcosa che nasce prima, quando parli con il cliente, senti le sue esigenze, che tipo di impostazione vuol dare alla bici, se gli piace più la salita o la pianura. Qualche soddisfazione poi arriva, quando questo cliente, o almeno qualcuno di loro, torna e ti dice che non sa perché, ma questa volta, con la bici nuova, ha fatto meno fatica a fare cento chilometri di quanta ce ne metteva prima per farne sessanta. Chissà perché, si chiede, ma va via contento”.
Adesso sono pochi quelli che passano di qua, escono un migliaio di bici all’anno dalla Gemmati Velocipedi (questa è la scritta che ora come allora copre la facciata dello stabilimento di Teglio Veneto) Iride, ma va bene così lo stesso: “E’ arrivato l’alluminio, il titanio, il carbonio e con questo i cinesi con i telai standard pronti all’uso che talvolta ti vien da ridere a sentire le storie su di loro. Del tipo, uno dall’Italia gli manda un telaio in un posto dove in quindicimila lavorano e vivono solo di biciclette e dice loro: ne voglio mille così, identici. Peccato che nell’esemplare spedito, per sbaglio, c’era finito un capello sul telaio, che poi era stato verniciato. E loro gli hanno mandato mille esemplari con altrettanti capelli. Verniciati”.
Tutte le leghe e i metalli nuovi, belli sì, ma per Carlo l’acciaio non si batte: “Sono mode, come lo scatto fisso. Una volta si chiamava la ‘spicciola’ ed era una bici adattata per la strada dai pistard, sempre senza freni, ma con il manubrio modificato. A loro i freni certo non servivano, adesso c’è gente che si schianta perché non ha capito cosa fare quando deve rallentare senza freni. O la pedivella che recupera il punto morto, l’ingranaggio ovale, i freni a disco. Sì, va bene tutto, ma una bici in acciaio come dio comanda è un’altra cosa”.
Eppure Carlo non è rimasto fermo, si è guardato in giro, ha provato, sperimentato: “Vuoi sapere una cosa? La city bike, secondo me, è nata qui, a Teglio. La mia l’ho presentata alla Fiera di Padova nell’89. Ammirata e fotografata da tutti”. E adesso, quanto meno, si restaurano le bici vecchie, perché si comincia a capire quanto belle fossero, e qualcuno il nome di Gemmati lo fa anche in internet. E, grazie a un americano che ha sposato una di Portogruaro (ma che, soprattutto, si è fatto fare, per prima cosa, una Iride da corsa) le bici di Carlo Gemmati sono sbarcate negli Usa, con tanto di sito: “Lo gestisce lui, là, io a malapena uso il fax. E anche se mi chiami, insisti, perché può essere che sto saldando e non ho tempo per rispondere”.
Dentro al capannone giallo ocra di Teglio il tempo non sembra essere passato: le foto anni Trenta e Quaranta paiono adeguate al tempo presente, le vecchie insegne, la saldatrice, la dima, la bici di Coppi, le scritte in corsivo sulle pareti, anche il grembiule blu di Carlo, persino mamma Flavia nell’ufficio che scrive a mano chissà cosa. Tutto sa di vecchio museo, comprese polvere e giochi di luci e ombre, se non fosse per un computer, piazzato sopra un vecchio tavolo di ciliegio, dove si prendono le misure degli appassionati e si calcolano, poi, le lunghezze e le inclinazioni dei telai al millimetro. E, soprattutto, per quel bagliore che arriva dal cannello della saldatrice. E’ un piccolo grande sogno che va avanti? “No, è la malattia che continua, fino a quando vedremo”.
Franco Bortuzzo
foto di Alberto Missana