Il 4 luglio 1952 si correva la decima tappa del Tour de France, la Losanna-Alpe d’Huez di 266 chilometri. La prima volta, nel suo mezzo secolo di storia, che la Grande Boucle si arrampicava su quei 21 tornanti alpini. Sandrino Carrea vi giunse a 3’29” dal suo capitano Fausto Coppi. Vi giunse sesto, preceduto anche da Jean Robic, Constantin Ockers, Antonio Gelabert e Jean Dotto. Vi giunse con la maglia gialla di leader della classifica generale. E vi giunse frenando.
Frenando? Carrea frenò per essere certo di aver fatto tutto il possibile, sperando soprattutto di essere riuscito a perdere la maglia gialla. L’aveva conquistata il giorno prima, nella Mulhouse-Losanna di 238 chilometri, settimo all’arrivo (su otto fuggitivi, l’ottavo era l’africano Kebaili: la volata non era la migliore dote di Sandrino) ma incredibilmente primo in classifica. Il comando della corsa era infatti l’ultimo dei suoi pensieri, e divenne invece la prima delle sue preoccupazioni. Tant’è che se n’era già andato in albergo, e qui fu avvisato, prelevato e sequestrato dagli organizzatori per la cerimonia della incoronazione. La sera, in albergo, a tavola, Carrea teneva gli occhi bassi temendo l’ira del capitano. Ma Coppi gli rifilò una pacca sulle spalle, graziandolo. Una volta, la si può anche passare liscia, pensò Carrea, due no. Così sull’Alpe d’Huez, pur avendone, preferì incollarsi alla ruota di Dotto e arrivare – non si sa mai – frenando. E quando scoprì il cronometraggio, secondo nella generale a 5” da Coppi, c’è da giurare che Carrea tirò anche un grande sospiro di sollievo. Minaccia sventata, pericolo passato, onta (e forse anche licenziamento9 evitata.
Oggi, 11 anni fa, Sandrino Carrea non tirò un sospiro di sollievo, ma di congedo. Aveva 86 anni e mezzo. Non c’erano state avvisaglie. Né debolezza né stanchezza. Due stati fisici a lui sconosciuti. Perché era forte e inesauribile. Il suo amico e compagno di una vita, Ettore Milano, sosteneva che Sandrino fosse l’incrocio fra un orso e un cinghiale. In bici era l’angelo custode di Coppi per la salita: tirava (e lo tirava, finché poteva, tanto la tv non esisteva) e inseguiva, apriva e lanciava, sosteneva e sempre rispettava. Giù dalla bici avrebbe continuato a essere il suo evangelista a parole, poche ma definitive, il suo missionario a pensieri, semplici e puri, il suo testimone in manifestazioni, dalle corse alle messe. Anche in quei giorni freddi e umidi di 11 anni fa, Sandrino si alzava presto la mattina, caricava la stufa come se fosse la caldaia di una nave a vapore, raccoglieva e distribuiva cibo al Piccolo Cottolengo Don Orione di Tortona, raccoglieva altro strada facendo, quel che c’era c’era, aveva cominciato a farlo in periodi ben più miseri e bellici, era tutto ben di dio, ferraglia e legname, castagne e nocciole, anche sorrisi e nostalgie, notizie e racconti. Anche in quei giorni freddi e umidi di 11 anni fa, Sandrino beveva la sua tazza di caffè al mattino immergendo pane raffermo, mangiava il suo piatto di spaghetti con ragù di cinghiale cacciato in prima persona e un bel bicchiere (ma il suo bel bicchiere era da mezzo litro) di rosso a mezzogiorno, poi si dedicava a orto e vigna, ai cachi e alle verze, al ciclismo da leggere o da guardare, alla famiglia e agli amici, ai cani e alle galline.
La sua casa (anche la sua casa) sapeva di Fausto Coppi. Il televisore che Coppi aveva regalato come dono di nozze, ad Anna e Sandrino, cui aveva fatto da testimone (e da ospite d’onore). La valigia di legno del Tour de France, dove custodiva i dorsali e i libri della corsa. Le fotografie, tutte in bianco e nero, alcune incorniciate e appese, altre incollate e impaginate. E poi il dialetto. E poi l’accento. E poi le biciclette parcheggiate in quel locale al pianterreno, metà cantina metà magazzino metà garage metà laboratorio, la verità è che era un locale solo ma ne valeva almeno due. Coppi era anche nei libri, sui calendari, nei premi, sulle targhe. Insomma, nel cuore e nell’anima.
Il bello è che Carrea non voleva essere omaggiato, osannato, celebrato, neppure intervistato. A chi si affacciava al suo cancello e chiedeva di lui, rispondeva come se fosse un altro, ringhiando che Carrea aveva traslocato, si era trasferito, non c’era più, forse era morto. I cicloamatori che non lo conoscevano, passando si limitavano a indicare la casa, forse spiegando che qui una volta abitava un gregario – il gregario - di Coppi. I cicloamatori che invece sapevano, osavano soltanto sbirciare, incuriositi e impauriti. L’unico segno di riconoscimento stava (e sta ancora) in una piastrella di ceramica dipinta a colori, e la scritta Casa Carrea, fuori dalla porta di casa, ma a distanza di sicurezza dal cancello. Ma come già descritto, quella vale infinitamente più di una casa.
Il ciclismo di Carrea è vecchio, antico, arcaico e, come lui, defunto. Eppure la bellezza del ciclismo continua a essere quella, proprio quella, sempre quella, vecchia antica arcaica ma mai defunta, pane e salame, nebbia e canicola, salite e fatiche, garretti e nasi (il profilo del naso di Sandrino sembrava una parete dell’ottomila himalayano Nanga Parbat), e un gregario che per rispetto del suo capitano frenava in salita per cedergli la maglia gialla di primo in classifica al Tour de France.
Carrea riposa nel cimitero di Cassano Spinola – da un Campionissimo all’altro: che destino - a pochi metri da Girardengo. Sandrino in un loculo fra il popolo, Costante in una tomba di famiglia. Così va la vita. Anche da morti.