Per Alfredo Oriani era la libertà, o meglio, la liberazione. Per Curzio Malaparte significava l’amore. Per Fulvio Tomizza si trattava di un’euforia che si scaricava e si ricaricava a forza di pedali. Una sensazione magica, miracolosa, un’emozione stupefacente, vivificante, una droga sana, dolce. Forse, la felicità.
Stefano Pivato, già docente di Storia contemporanea all’Università di Trieste e di Urbino e autore – fra l’altro – di “Storia sociale della bicicletta” (il Mulino, 2019), approfondisce l’aspetto più intimo nel saggio “La felicità in bicicletta” (il Mulino, 152 pagine, 14 euro). E per spiegare questo stato di leggerezza, fisico e metafisico, corporale e spirituale, animale e perfino mistico, divide la questione in cinque capitoli.
Il primo è dedicato alla ciclopsicologia: che comincia dal “piacere” dei muscoli, dal “vento in faccia”, dalla “ebbrezza meccanica”, dal rimedio “sedativo e calmante”, fino all’intuizione di Steven Speilberg che lancia E.T. in volo, in bicicletta, sullo sfondo della luna.
Nel secondo capitolo si analizzano le diverse stagioni della felicità – infanzia, bambini che diventano adulti, adulti che rimangono bambini, amori a prima vista fino alle “poesie biciclettate” – e i diversi modi per sentirla e viverla. “Come bambini in bicicletta – versi di Vivian Lamarque – come bambini su quella del padre / della madre giovani giganti / seduti davanti o dietro a dire / oh guarda chi c’è”.
Il terzo capitolo è riservato alle seduzioni femminili: attrazione, seduzione, fascinazione, infatuazione, erotismo. “Un bacio in bicicletta, - parole e musica di Secondo Casadei – con lei seduta sul telaio, / lei cerca di tenersi ben stretta / per riuscire a prenderne un paio. / Provate, provate, ragazze / e mi darete ragione / è un bacio che vi fa veder le stelle / è una soddisfazione”.
Il quarto capitolo si occupa della felicità stradale, ma quella degli spettatori, non quella dei corridori. Perché la corsa per i corridori è sacrificio, rinuncia, dolore, sofferenza, agonia. Invece per gli spettatori è partecipazione, condivisione ma spirituale e non fisica, cordiale e non cardiaca, affettuosa e non faticosa. La corsa, sostiene Vasco Pratolini, “dispensa volantini e caramelle, fango e imprecazioni, felicità che durano un attimo e impolverature da dover ricorrere al tintore”.
Il quinto capitolo contempla “l’ecofelicità”, “un movimento volto a recuperare valori antichi e tradizionali legati al mondo delle due ruote: percorsi lontano dal rumore, dal traffico e dagli idoli del consumismo”, “nostalgia contro modernità, lentezza contro velocità”. E si citano i Tetes de Bois, banda musicale romana che si batte, a canzoni, per “una ecologia sociale a salvaguardia del pianeta” associata “a quello che è stato definito ‘l’effetto madeleine’ evocato da quanti celebrano la bicicletta come simbolo dell’infanzia”.
Pivato non ha dubbi: “’I ciclisti non sono mai tristi’ recita l’incipit di una canzone francese di fine Ottocento. Era vero oltre un secolo fa ed è vero ancora oggi”.