“La mia prima-primissima bicicletta da corsa? Una Branca. Felice Branca da Magnago era un telaista, meccanico della Filotex e anche della Nazionale italiana. Poi soltanto Colnago”.
“Da neoprofessionista, ai vecchi corridori davo del lei, ai campioni aggiungevo un signor. Signor Gimondi, premettevo, le poche volte in cui osavo rivolgermi direttamente a lui. Ma la corsa, per me, è sempre stata la corsa. E in un campionato italiano indoor, nella prova a eliminazione, mi ritrovai al duello finale proprio contro Gimondi. Volevo vincere. E potevo vincere. A differenza di Gimondi, che pure in pista andava forte, io ero cresciuto sulla pista, prima quella di Busto Garolfo, poi frequentando anche quella del Vigorelli. M’impegnai al massimo e vinsi la volata finale, alla grande, con dieci-quindici metri di vantaggio. Poi raggiunsi il mio box, ansioso di vedere le facce felici dei miei compagni. Invece c’era un’aria pesante, un silenzio imbarazzato, i musi lunghi. Enrico Paolini mi sussurrò che cosa avessi combinato. E io, sereno, candido, ingenuo, gli risposi che avevo vinto. Sì, mi disse, ma così, su Gimondi, adesso gli devi chiedere scusa. Scusa di che?, non capivo, non sapevo, non sapevo che ci fossero gerarchie, o almeno modalità da rispettare. Allora mi feci forza, andai da Gimondi, era di spalle, gli dissi ‘signor Gimondi’, lui si voltò, ‘ah, sei tu, giovane’, e così mi scusai”.
“Da allora, fra me e Gimondi, s’instaurò un bel rapporto. Quando vinsi il Mondiale a Goodwood nel 1982, in tv, con il mitico Adriano De Zan, c’era proprio Gimondi, e Gimondi esaltò la mia volata. Chissà se si ricordava di quella volta al Vigorelli. Io dico di sì”.
“Nelle tasche? Quando passai professionista, non esistevano barrette, gel e integratori, ma tartine, panini e frutta. Nelle tappe più lunghe, anche per variare un po’, dall’ammiraglia mi passavano una sacchetta ‘speciale’. Mario Beccia non resistette alla curiosità e mi chiese che cosa ci fosse dentro, chissà che cosa s’immaginava. Presi la sacchetta, estrassi un panino, dentro c’erano tonno e cipolline, lo divisi a metà e gli dissi che, a questo punto, se lo doveva mangiare. La tappa prevedeva un arrivo in salita. Quel giorno, invece di scattare e attaccare, Mario, che era un bravo scalatore, si staccò e arrivò fra gli ultimi. Il giorno dopo gli domandai che cosa gli fosse successo e lui si sfogò contro ‘quelle maledette cipolline che continuavano a tornarmi su’”.
“Non ho rimpianti. Ma se potessi tornare indietro, correrei almeno un Tour de France e qualche Giro delle Fiandre. Il Tour non per la generale, ma per le tappe e magari la maglia a punti. Il Fiandre perché il suo pavè è più abbordabile rispetto a quello della Roubaix”.
“In quegli anni il ciclismo italiano era il centro del mondo. Il Giro aveva la stessa importanza del Tour, i corridori stranieri venivano ingaggiati dalle nostre squadre, la nostra Nazionale era sempre la squadra da battere. E i miei sponsor preferivano che io corressi in Italia più che all’estero”.
“Ero abituato a vincere venti, trenta, anche quaranta corse l’anno. Quando cominciai a vincere di meno, allenamenti e corse mi pesarono di più. E mi passò la voglia. Così, è vero che smisi a trentatrè anni, ma è anche vero che avevo cominciato a diciannove. E quattordici anni di professionismo, il professionismo di quei tempi, in cui il Giro d’Italia era di oltre quattromila chilometri, non erano pochi”.
“Dopo vent’anni di corse da corridore e trenta di corse da direttore e manager, mi godo la libertà. Ma i giorni in cui si corrono la Sanremo e il Fiandre, la Roubaix, che pure non amo, e la Liegi, il Mondiale e il Lombardia..., mia moglie non mi propone gite o visite, non fissa appuntamenti o impegni. Mia moglie sa”.
Frammenti, impronte, schegge. Ricordi, racconti, confidenze. Un’ora e mezza volate via. Beppe Saronni, l’altra sera a Ovada, grazie agli Amici del Borgo.