Era proprio destino che non vincessi mai a Sanremo, né a pedali, la Milano-Sanremo, né a voce, il Festival. Che destino, che peccato, che rimpianto. Sulla carta la Milano-Sanremo poteva essere una corsa, non dico adatta, ma adattissima alle mie caratteristiche: la distanza, quasi trecento chilometri, il finale, un rettilineo piatto in leggera salita, il periodo, la festa di San Giuseppe, patrono non solo dei falegnami ma di tutti i lavoratori, dunque anche mio patrono. Sentivo che lui si aspettava molto da me, ma anch’io mi aspettavo moltissimo, forse troppo, da lui.
L’anno in cui alla Milano-Sanremo ottenni il migliore risultato fu il 1969. Al Giro di Sardegna, dove di solito furoreggiavo, mi ero trattenuto vincendo una sola tappa, che perdipiù, anzi, perdimeno, si trattava di una semitappa. Alla Parigi-Nizza non riuscii più a nascondermi né a frenarmi, vinsi una tappa, rivinsi anche l’ultima a Nizza sulla Promenade des Anglais, poi la giuria mi declassò accusandomi di non aver mantenuto la linea e – orrore! - proclamò vincitore Marino Basso, un insulto al buon senso, un attentato alla costituzione, perché era stato Basso a danneggiare me e non io a danneggiare lui, Basso aveva il potere di potermi danneggiare anche con la sola forza del pensiero.
Digerita la delusione, mi rimase l’amaro in bocca e mi concentrai sulla Milano-Sanremo. La verità è che scoppiavo di salute, mi sentivo pieno, carico, esuberante. Avevo studiato il percorso, che poi non c’era niente da studiare, era quello di sempre, avevo studiato la lista dei partenti, dove constatai che purtroppo c’erano sia Eddy Merckx sia l’antiMerckx cioè Roger De Vlaemnck, avevo studiato anche il tempo, l’oroscopo, la cabala, la Settimana Enigmistica e tutto sembrava autorizzarmi a sperare in una clamorosa vittoria, almeno come risarcimento per la prudenza usata in Sardegna, per l’offesa subita a Nizza e per quella vita da corridore che significa un’astinenza sessuale da monaco eremita. Ma non avevo fatto i conti con il mio metabolismo labile.
La sera della vigilia mi sentivo calmo e forte. Mi addormentai come un angioletto. Ma feci sogni da diavoletto. Sognai donne più scatenate di Merckx quando si trasformava da uomo in Cannibale e più irriducibili di De Vlaeminck quando rincorreva Merckx. Il primo sogno a occhi chiusi verso le quattro di mattina, il secondo ancora a occhi chiusi alle sei, il terzo ormai a occhi inutilmente aperti poco dopo. Mi alzai esausto, mi sentivo fisicamente svuotato, psicologicamente condizionato e con un ingiustificato senso di colpa. Per non destare sospetti, indossai un paio di occhiali da sole a colazione e li tenni anche alla partenza. Poi, sapendo di quello che mi aveva combinato il mio metabolismo labile, corsi con giudizio, risparmiando le energie. La corsa si accese, anzi, esplose: davanti una fuga con Dancelli, in mezzo un contrattacco di Gimondi e Bitossi, dietro Merckx, e dietro Merckx, come un’ombra, un’ombra con gli occhiali da sole, io.
Prima del Poggio, il gruppo si ricompose. Ma solo per un attimo. Perché al primo metro di salita, Merckx cominciò a volare e noi ad arrancare. Riuscimmo, a costo di sacrifici inenarrabili, a tenerlo lì. Tant’è che Merckx scollinò insieme con Poulidor e Adorni, e io ero pochissimo dietro, li vedevo, li sentivo, li immaginavo. Che cosa successe in discesa me lo avrebbero raccontato: Merckx che si tuffò come quelli ad Acapulco, Poulidor che sbagliò una curva, Adorni che frenò, e noi che li raggiungemmo. Ma non raggiungemmo Merckx. Primo Merckx, poi una volatona, secondo De Vlaeminck, terzo – orrore! – Basso e quarto io.
(fine della prima puntata – continua)