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ANDREA CIACCHINI RIVEDE LA LUCE DOPO 7 ANNI DI BATTAGLIA LEGALE. DOPATO? NO, LICENZIATO INGIUSTAMENTE
di Giulia De Maio | 14/11/2020 | 07:48

Ha dovuto dimostrare pazienza e perseveranza, doti indispensabili per un ciclista. Otto anni fa Andrea Ciacchini coronava il sogno cullato fin da bambino: firmare il suo primo contratto da ciclista professionista, dimostrando al mondo come un atleta diabetico non debba porsi limiti, se tiene sotto controllo la propria patologia.

Pisano classe ’90 Ciacco nel 2013 inizia la sua avventura nel ciclismo professionistico con la formazione statunitense Novo Nordisk, balzata agli onori delle cronache per la sua onorevole mission: accogliere tutti e soli corridori affetti da diabete mellito di tipo 1, malattia con cui Andrea convive da quando ha 11 anni.

«Fu un’annata travagliata – ha ricordato Ciacchini sulle pagine de Il Tirreno di giovedì –. Onestamente non avevo ancora raggiunto la giusta maturazione. Andai in depressione e in sovrappeso. Avevo firmato un contratto biennale con la squadra. Alla fine della prima stagione parlai con il team manager Vassili Davidenko, il quale mi assicurò che avrei avuto una seconda possibilità. Ero pronto a dare tutto me stesso per il ciclismo».

Allora Andrea non poteva minimamente immaginare che quella stagione da neopro’ sarebbe stata l’ultima della sua carriera e che da quel momento, invece che spingere sui pedali, avrebbe dovuto affrontare una lunga e dolorosa battaglia legale per difendere la propria onorabilità dall’infamante accusa di aver assunto sostanze proibite. Accusa mai sfociata in una squalifica, anzi contestata da due autorevoli perizie.

Quello che doveva essere l’inizio della preparazione, si trasformò nell’inizio del calvario. «Il 7 dicembre – racconta Andrea – come il resto della squadra mi sottoposi a un controllo antidoping. Se in quel momento fossero emerse anomalie, non mi sarebbe stato permesso partire per il primo ritiro in programma a Santa Barbara, negli Stati Uniti. Il 10 dicembre invece ero regolarmente con i miei compagni in California. Facemmo tutti un secondo controllo antidoping. Tre giorni dopo venni svegliato di primo mattino per un’ulteriore analisi. Quando, nonostante avessi la febbre a 38, fui chiamato al quarto test nel giro di 10 giorni, iniziai a chiedermi quale fosse la ragione. Parlai con il medico sociale Pasquale Tamburrini. Ero sicuro di non aver fatto nulla di male. Scoprii che mi era stato riscontrato un livello basso di testosterone e alto di cortisolo: una situazione anomala, che poteva essere collegata ad un abuso di testosterone. Ma erano i valori che avevo avuto per tutta la precedente stagione, durante la quale mai ero risultato positivo».

L’anticamera dell’esclusione dalla squadra: «Mi trovai ad essere l’unico su 20 ciclisti a non disporre della propria bicicletta, anche se inizialmente mi fu detto che era in riparazione. Il licenziamento mi venne comunicato via mail il 20 dicembre. In una successiva lettera mi venne contestato l’uso di sostanze proibite, sulla base di dichiarazioni scritte di altri membri del team. Provai a chiedere spiegazioni. Il direttore sportivo Massimo Podenzana mi propose di firmare dimissioni spontanee. Inizialmente rifiutai, ma giorni dopo accettai».

Perché firmare le dimissioni? «Mi trovai costretto. La squadra mi fece capire che comunque mi avrebbe seguito e dato la possibilità di essere reintegrato nel 2015. In realtà non accadde niente di tutto questo. Continuai a chiedere spiegazioni e finalmente dopo 4 mesi, nel marzo 2014, ricevetti il risultato delle analisi, secondo le quali, sulla base di un calcolo logaritmico, avrei fatto uso dell’ormone della crescita o di un suo precursore. A svolgerle Scott Analytics, un laboratorio non accreditato dalla Wada (World Anti-Doping Agency)».

Così crolla il mondo addosso ad un ragazzo alla soglia dei 24 anni, costretto di fatto al ritiro. Con il supporto della propria famiglia il corridore inizia una battaglia legale, sostenuta da due autorevoli perizie, redatte dal dottor Paolo Borrione, vice presidente del Comitato Controlli Antidoping Nado Italia, e dal professor Domenico Canale, endocrinologo e andrologo all’Azienda ospedaliero-universitaria pisana. Nella prima si legge: «Risulta chiaro come il referto analitico emesso dalla Scott Analytics non possa in nessun modo essere considerato come il rapporto di prova di un controllo antidoping propriamente detto» e nella seconda: «non vi sono dati clinici che supportino l’evidenza di un abuso di ormone GH (della crescita, ndr) o di IGF1 (precursore, ndr) da parte del Ciacchini; non sussistono dati di laboratorio che supportino l’evidenza di un abuso di GH da parte dello stesso».

«Purtroppo l’archiviazione della querela che ho sporto ed i termini della prescrizione, decorsi pochi mesi fa, mi hanno impedito di chiedere un risarcimento danni. Una squadra che trova un proprio atleta positivo avrebbe il dovere di denunciarlo all’Unione Ciclistica Internazionale. Io non sono stato denunciato e non sono mai risultato positivo» ha spiegato Ciacchini al collega Massimo Berutto che per primo ha raccontato la sua storia.

Oggi a tuttobiciweb aggiunge: «Ho sofferto tanto, all'inizio mi sono proprio lasciato andare. Ho messo su parecchio peso e sono finito totalmente allo sbaraglio. Nessuno dovrebbe provare il buio della depressione. Io porto ancora addosso i segni di questa esperienza, il mio carattere ne rivela degli strascichi. Come dopo una caduta però bisogna rialzarsi, tutto questo dolore mi ha fortificato. Il mio motto è sempre stato "non tutti i mali vengono per nuocere", quindi oggi penso positivo e che se avessi continuato a girare il mondo tra una gara e l'altra, non avrei magari incontrato Alessia, che oggi è la mia luce».

Cosa passa nella testa di Andrea quando vede i suoi ex manager e ds ancora in attività? «La cosa che più mi dà noia quando seguo le corse in tv è pensare che sarei potuto benissimo essere ancora in gruppo. Quel team che aveva dato una speranza a tanti ragazzi diabetici mi ha dato e strappato, dall'oggi al domani, il futuro. Quando è successo il tutto ero un ragazzino ma avevo fatto dei programmi, immaginavo davanti a me una vita diversa e invece... Nel 2014 quella che era la squadra con cui avrei dovuto correre ha disputato la sua prima Milano-Sanremo. Non essere al nastro di partenza della Classicissima sarà per sempre il rammarico più grande della mia vita».

Cosa fa oggi l’ex ciclista Ciacchini? «Adesso gestisco il ristorante La Tavolaccia a Rigoli, frazione del comune di San Giuliano Terme, nella provincia di Pisa, insieme a mio padre Valerio e a mio fratello Marco. Porto avanti l'attività di famiglia: sto alla cassa e servo ai tavoli come cameriere. Ora purtroppo, a causa delle restrizioni dovute al Covid, possiamo solo offrire i nostri piatti da asporto ma il buon cibo e un sorriso non mancano mai per i nostri clienti».

Per fortuna non c'è solo il ciclismo nella vita, come gli ha ricordato ieri con un messaggino l'ex pro' Francesco Secchiari, che è rimasto colpito nel leggere la sua storia. Nonostante tutto, l’amore per la bicicletta non si è spento: «Ho ripreso a correre a livello amatoriale. Vorrei tornare a trasmettere i miei valori, per far capire che non esistono limiti per chi ha il diabete». 

Prima di salutarci, Andrea ci tiene a ringraziare di cuore chi ha sempre creduto nella sua innocenza: «È normale che un genitore difenda il proprio figlio, ma mio papà ha fatto talmente tanto che non basterebbe una vita per ripagarlo. Senza di lui, non sarei arrivato a niente. Mi sarei rassegnato quel giorno alla Coppi&Bartali 2014 quando Davidenko e il suo avvocato mi dissero che non avrei dovuto proferire parola riguardo al documento di intenti che mi avevano fatto sottoscrivere, mi sarei fermato di fronte a una causa legale che in America avrebbe comportato costi esorbitanti, non avrei avuto il coraggio di procedere quindi in Italia, dove l'unica speranza era intraprendere una causa per estorsione, non sarei riuscito a raccontare ai N.A.S cosa avevo vissuto, non avrei investito due anni alla ricerca dei materiali necessari a dimostrare quanto mi era stato fatto, non avrei avuto gli elementi per sbugiardare quanto dichiarato dal laboratorio di Pasadena di Paul Scott (il direttore del laboratorio antidoping a cui si affidava il team Novo Nordisk e difensore di Lance Armstrong nel processo contro l'Usada, ndr). Grazie papà». 

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