Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi la ventesima tappa: Imerio Massignan ci racconta quella del 1960.
Massignan Imerio da Valmarana di Altavilla Vicentina: “Se me la ricordo? Certo che me la ricordo. Era sabato 8 giugno 1960, penultima tappa del Giro d’Italia, la Trento-Bormio, 229 chilometri e cinque passi, pronti-via e salita, prima quella sterrata di Cadine, poi quella asfaltata della Val di Ledro, e attacco di Van Looy, una quindicina, e dietro il panico, la corsa che esplose, il gruppo che saltò per aria, io nel secondo troncone, Baldini e altri nel terzo, e quando arrivammo a Madonna di Campiglio volavano già i minuti. Mi dissi: o la va o la spacca. Chiesi a Casati, mio compagno nella Legnano, di darmi qualcosa da mangiare ché avrei saltato il rifornimento, e a Vermiglio attaccai, sul Tonale andavo su a 25 all’ora, a uno a uno li ripresi tutti, in cima anche Van Looy, poi la discesa tranquilli, mangiando un panino, formaggio molle o carne macinata con un po’ di limone, e aspettando l’ultima salita: il Gavia”.
Massignan, il primo uomo sul Gavia: “Il primo uomo sul Gavia in bici fu un po’ come il primo uomo a piedi sulla Luna, con pochi anni di differenza a favore del Gavia. Era la prima volta che si faceva in assoluto. Non si facevano ricognizioni, non si sapeva niente di niente, a parte la cartina sul giornale. Ma era meglio non sapere niente: 50 chilometri di sterrato, dai 1300 metri di Ponte di Legno ai 2650 al Rifugio Bonetta, e poi giù ai 1700 di Santa Caterina Valfurva fino ai 1200 di Bormio, una salita impossibile e una discesa ancora più impossibile. Appena la strada cominciò a tirare, Van Looy sparì. Andai su da solo con il mio passo. Metà in sella, soprattutto nei punti più duri, così la ruota posteriore non slittava sulla ghiaietta, e metà sui pedali, dov’era possibile, anche per fare un po’ di velocità. Era una mulattiera da guerra, più da muli che da soldati, però il fondo era abbastanza battuto, probabilmente dai camion. Nel bosco la fatica era tremenda. Più si saliva – e il 44x25 era il massimo dell’agilità a noi consentita -, più l’ambiente si faceva invernale. Dove adesso c’è la galleria, allora la strada costeggiava lo strapiombo e passava in un punto da cui nel 1954 era precipitato un camion con gli alpini. In cima due muraglioni di neve. Ero solo, Gaul a 1’40”, gli altri inseguitori a cinque o sei minuti, potevo vincere la tappa e conquistare la maglia rosa di Anquetil. Ero a un passo dalla storia”.
Massignan, detto Gambasecca: “E stavo bene. Avevo una sola preoccupazione: l’ammiraglia della Legnano, che ne aveva sempre una, stavolta aveva rotto la frizione e si era fermata prima del Gavia, il meccanico aveva fatto appena in tempo ad allungare un paio di ruote a un motociclista, ma del motociclista non c’era traccia”. Il resto fu una Caporetto ciclistica, un’odissea alpina, un romanzo di cui bisognerebbe riscrivere il finale. “In discesa forai tre volte. La prima gomma, posteriore, me la cambiai da solo. La seconda, anteriore, la presi da un ragazzo ai bordi della strada. La terza, anteriore, quella appena cambiata, la consumai arrivando al traguardo sul cerchione. Dietro a Gaul. Piangendo, e non mi vergogno a dirlo. Secondo all’arrivo e quarto nella generale, che cos’altro avrei dovuto fare?”.
Massignan, cognome da moschettiere: “Non correvo né bene né male. Il mio forte, oltre alla salita, era il recupero: il giorno dopo ero come nuovo. Il mio debole era la velocità: in volata perdevo anche contro la mia ombra. E poi la squadra: nelle tappe di montagna i miei compagni li vedevo solo alla partenza. Se potessi tornare indietro nel tempo, vorrei una squadra più forte, perché la Legnano di allora si faceva con pochi soldi, e modificherei il mio modo di correre, perché mi segnerei le tappe giuste sul calendario e le altre le farei tranquillo. Correvo sempre da solo, avevo sempre paura delle crisi di fame, tenevo sempre un po’ di riserva, arrivavo sempre al traguardo più fresco degli avversari. E che avversari. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta li trovai tutti io, i corridori più forti, da Anquetil a Van Looy, da Battistini a Pambianco, da Gaul a Bahamontes, da Nencini a Carlesi”.
Massignan, lo scalatore: “La montagna più amata? Superbagnères, al Tour de France del 1961. La più odiata? Lo Stelvio, al Giro del 1961. La più dura? Il Muro di Sormano al Giro di Lombardia. La più ricordata? Il Gavia. Adesso anche la pianura mi sembra salita: troppe pedalate nella vita e senza più cartilagini, ho male alle gambe anche a camminare. Ma non mi lamento. Con il ciclismo non mi sono arricchito. Professionista a 50 mila lire al mese, poi raddoppiai, ma intanto mantenevo i miei cinque fratelli e dopo tre anni comprai una Fiat 1100. Famiglia contadina, avevamo tutto, mai patita la fame. E finito di correre, prima aiutai mia moglie in una rivendita di tabacchi, profumi e giornali a Sestri Ponente, poi feci il piastrellista a Silvano d’Orba”.
Massignan, il credente: “Credo in Dio, meno alla messa, ci vado tre o quattro volte l’anno. Non credo al paradiso e all’inferno, prima o poi sarò costretto a controllare di persona, ma inferno e paradiso ci sono già qui sulla Terra”.
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