E’ la quarantesima della quarantena, l’ultima puntata di una rassegna nata per necessità (la clausura), urgenza (il disordine), sentimento (la passione), valore (la memoria), appartenenza (il ciclismo). Stavolta tocca a Marcello Osler, professionista dal 1973 al 1980, trentino di Pergine Valsugana, la sua storia anche nel libro “La fuga più lunga” (di Elena Leonardelli, la moglie, edito da Publistampa nel 2016).
ARIA “Giro della Colombia 1970, dilettanti, mese di aprile. Nazionale italiana con Giampaolo Flamini, poi professionista, Roberto Fontana e Franco Martini, rimasti dilettanti, c.t. Elio Rimedio e accompagnatore Leandro Coco di Ravenna, che sapeva parlare bene lo spagnolo. Giacca azzurra con lo stemma al petto, camicia bianca, cravatta. Maglia bianca con fascia orizzontale azzurra. Arrivammo una settimana prima del via per acclimatarci, trattati con i guanti bianchi. Un giorno provammo una salita vicino a Bogotà, si partiva da 2300 metri e si arrivava sullo sterrato a più di 4mila metri di altitudine, noi quattro e alcuni corridori colombiani. Sopra i 4mila non si respirava più e i colombiani ci andarono via”.
CALVARIO “Cercai di raggiungere i colombiani in discesa, ma su quella mulattiera, con la strada bianca, in prossimità di un ponte caddi, battei la testa contro una pietra gigantesca e svenni. Eppure quel masso fu una fortuna, perché non c’erano barriere e sarei precipitato nel vuoto. Due o tre giorni di coma, finii sulla prima pagina del quotidiano ‘El Espectador’, poi mi ripresi e volli partecipare comunque alla corsa. Ma non riuscivo a mangiare, fu un calvario e mi ritirai”.
ONORE “Flamini vinse la seconda tappa, 159 chilometri, davanti a Johan De Muynck. L’onore era salvo”.
RAGNO “Per tenerci in forma io e Fontana, anche lui ritirato, facevamo 100-120 chilometri dietro alla corsa. Un giorno ci fermammo in una valletta, c’era una donna con un otre di pelle piena di acqua sulle spalle, le domandammo se si potesse bere, ci indicò una fonte dove ci rinfrescammo, ci lavammo e, mentre stavamo per dissetarci, da una foglia emerse un ragno giallo e nero, grosso come una mano. Ci si rizzarono i capelli, saltammo in bici e scappammo”.
TORTELLINO “Campionato italiano dilettanti 1970, del Csi, mese di luglio. Valido anche come Trofeo Tortellino d’oro. Primo. Si correva ad Albinea, io gareggiavo per la Orlandini di Reggio Emila, distanza tra Albinea e Reggio una decina di chilometri, meglio di così non si poteva”.
ALTEZZA “Tour de l’Avenir 1972, dilettanti, mese di settembre. Vinse l’olandese Fedor Den Hertog. L’anno prima era arrivato secondo, ed era già stato campione olimpico della 100 chilometri. Lo consideravano forte come Eddy Merckx, ma non fu all’altezza. Alto e magro, in salita usava i rapporti che noi spingevamo in pianura”.
CUCINA “Da dilettante non avevo paura di nulla e di nessuno, né delle salite né degli avversari. Preferivo le salite pedalabili. In allenamento, se avevo voglia, facevo il Rolle; se di voglia ne avevo poca, il San Lugano. E poi sempre saliscendi. In gara, volevo la corsa dura, partivo anche al pronti-via, mi portavo dietro quattro o cinque corridori, anche sette o otto, che si cucinavano da soli”.
UMORE “Professionista nel 1973 con la Sammontana. Il direttore sportivo era Alfredo Martini. Mi voleva bene come a un figlio. Aveva il dono di capire l’umore del corridore senza neanche il bisogno di parlare. Se arrivavo bene, mi faceva i complimenti. Se arrivavo stanco, mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva di andare subito in albergo a riposare”.
MASSAGGIO “Per anni, prima alla Sammontana poi alla Brooklyn, il mio massaggiatore era Silvano Davo, che aveva corso da dilettante e poi da professionista. Ci sapeva fare. Tra i massaggiatori ci sono quelli che parlano poco o niente, però ti lavorano e ti tolgono la fatica dai muscoli; e ci sono quelli che parlano tanto o troppo, però ti spolverano o ti lisciano la pelle per non fare fatica”.
CORSA “Con i miei capitani, da Bitossi a Moser, dovunque mi sono trovato bene. Però Bitossi faceva la sua corsa, quella di Moser era la nostra”.
GATTO “Quarta tappa del Giro di Puglia 1973, mese di ottobre. Fuga a due, io e Campagnari, io neoprofessionista, lui quasi a fine carriera, io più generoso, lui più furbo. Io tiravo, lui mangiava. Centoquaranta chilometri. Ai piedi della salita finale lui andò via come un gatto, io tenni duro per salvare il secondo posto, e ci riuscii. Bitossi vinse la volata del gruppo e fece terzo. Pensai che se non fossi andato in fuga, Bitossi avrebbe vinto la tappa. Lo dissi a Martini che avevo rovinato la corsa a Bitossi, invece Martini mi assolse, mi rincuorò e si complimentò. Era un uomo speciale”.