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ISRAELE. TERRA PROMESSA, TERRA IN EVOLUZIONE
di Pietro Illarietti | 27/04/2019 | 07:54

Israele in bici è il viaggio nella vita tra nuovo e mito. La luce è sempre forte e ti ricarica in mo­do naturale. Autunno, inverno e primavera sono i mesi migliori in sella alle due ruote. Strade ot­time, traffico scarso, tranne nella me­tropoli di Telaviv dove invece è un caos costante, ma le bici viaggiano pure in autostrada. Il senso del pericolo è di­ver­so rispetto all’Europa e bambini gi­rano da soli in città. 

Profumi e sensazioni si mescolano e i contrasti sono forti. Si passa dai quartieri super tech di Telaviv, dove il pa­tron di Cycling Academy Silvayn Adams ha realizzato un centro extralusso dedicato ai ciclisti, alle bancarelle di Carmel Market, cuore vibrante e sincero soprattutto nella zona degli arti­gia­ni e artisti. Ci si può trovare di tut­to. Merci varie, cibo, spremute di arance e melograni che vengono offerti agli acquirenti da abili venditori. Gra­zie alla mia guida, esperta di politica e po­co amante del premier Bibi Ne­ta­nyahu, trovo il vero falafell a pochi sha­ker, la moneta locale. Per fare il calcolo in eu­ro basta dividere per quattro e scopri che quello che pensi di aver pagato un fortuna in realtà è un importo modesto. L’importante è trattare il prezzo, costantemente.

La frutta sempre fresca è utile per chi viaggia in bici. Nel week end per noi si tiene la Granfondo Israel e per disputarla ci spostiamo verso la regione di Arava, al confine con la Giordania. L’or­ga­nizzatore è sempre lui, l’ormai mi­tico Harel Nahmani. Qui il concetto di ciclismo non è proprio quello agonistico europeo e durante la prova vi è un miscuglio di triatleti e ciclisti. Per alcuni chilometri la strada diventa pure sterrata. Forse il modello “Strade Bian­che” ha fatto breccia.

Per evitare problemi di viabilità, du­ran­te i 150 chilometri, la Polizia effettua dei barrage, ossia raggruppa i ciclisti per far defluire il traffico. Si at­tende pazienti e nel frattempo si conoscono persone nuove. Il dopo corsa è invece un terzo tempo rugbistico, e ci si ritrova in un’area dedicata in attesa delle premiazioni con un maxi banchetto all’aperto. In un anno scendono tre millimetri di pioggia. Difficile pensare ad un evento guastato dal maltempo. 

Terminata la Granfondo, rimiamo im­mersi nel paesaggio spettacolare al con­fine con la Giordania, nel deserto delle comunità locali (i Moshav) che, fra le altre cose, coltivano frutta e verdura desalinizzando e/o sfruttando in maniera adeguata l’acqua salata del Mar Morto e che rendono giardini e frutteti parti di deserto, grazie ad opere ingegnose per la raccolta della (poca) acqua presente. In queste comunità è possibile pure soggiornare come turisti per una vacanza alternativa, e forse più vera, in un territorio apparentemente inaccessibile. 

Questi insediamenti sono stati agevolati dai piani governativi per preservare i confini. Basta salire su un’altura per vedere come l’uomo abbia modificato l’ambiente a suo favore. La strada che separa Israele e Giordania permette di capire come la Giordania sia rimasta tale e quale nei secoli, mentre la parte israeliana sia un fiorire di attività.

I Moshav sono cooperative agricole. So­litamente sui libri di scuola ci vengono presentati i Kibbutz, strutture dove i volontari non vengono pagati in denaro ma ricevono tutto ciò di cui hanno bisogno dalla comunità.

In pratica convivono due sistemi opposti. La differenza sostanziale con i Kib­butz è che, nel Moshav, le fattorie sono di proprietà individuale, ma con un’estensione uguale per tutti.

 

In questo secondo modello, molto in­no­vativo, gli agricoltori che si impegnano di più possono diventare benestanti a differenza dei Kibbutzim collettivi, dove i membri devono avere lo stesso tenore di vita.

Visitare il Moshav è un’esperienza uni­ca. Sono concepiti come aziende di pro­duzione intensiva di frutta, verdura, fio­ri e addirittura miele. Prendiamo l’esempio della produzione di peperoni. Qui possono essere prodotti in tutti i co­l­ori possibili per le esigenze dei vari mer­cati. Europa e Russia sono gli sboc­chi naturali per questi prodotti.

L’innovazione è esasperata e si punta forte pure sul biologico. Lasciate le bici fuori dall’azienda facciamo un giro tra le coltivazioni. Non si usano i pesticidi ma sulle piante vengono sparsi boccetti contenenti insetti che mangiano i pa­rassiti. Insetti che sono prima conservati a basse temperature dentro a celle frigorifere e, solo in un secondo tempo, vengono risvegliati al mo­men­to di en­trare in azione.

La persona che ci guida nelle serre del Moshav ci svela anche grandi estensioni di basilico. Produce tre tonnellate di pesto a settimana e poi lo piazza sui vari mercati. Ed io che ero convinto che il pesto fosse una specialità del made in Italy... 

Fatico a credere a tutto quello che vedo con fiori di mille tipi coltivati ovunque e fragole giganti fatte crescere in so­spensione. Qui ci sono ricercatori e studenti da tutto il mondo. Come se non bastasse, mi spiegano che non solo l’agricoltura è il vanto di Israele mentre mi porgono un frutto da riporre nella maglietta da ciclismo per avere energie da sfruttare nel resto della pedalata. 

Robotica, settore militare, informatica, finanza e costruzioni guidano una na­zione che ha nella competizione sfrenata una forza dirompente. La voglia di emergere è molta, bisogna fare tanto, bene e subito, perché nel DNA di questo popolo vi è anche la consapevolezza di un passato che ha visto il futuro sempre incerto. 

Mai come in questo posto ho avuto l’im­pressione che il destino dell’uomo sia nella propria intelligenza. Ripren­dia­mo le nostre bici impolverate e mu­liniamo sui pedali con la testa piena di riflessioni. 

Sempre più spesso si parla di concorrenza internazionale. In uno dei punti più bassi delle terra, a meno 370 metri dal livello del mare si toccano picchi di eccellenza rari a vedersi. 

La strada ci porta ora verso Geru­sa­lem­me, città dall’affascinante passato e dai fragili equilibri. Mussulmani, cristiani, armeni e ortodossi vivono assieme in un altro equilibrio precario.

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