Quando ho detto ad amici e parenti che sarei andato in Oman, la reazione più comune è stata “Bello! Ma dov’è?”. Non si può neanche biasimarli, visto che l’Oman, dal canto suo, non ha mai fatto chissà che per meritarsi le attenzioni degli europei, in particolare di coloro che magari non seguono le vicende della penisola arabica e non hanno mai nutrito un particolare interesse per la geografia. Se si parla di Medio Oriente, il 90% delle persone pensa alle guerre, che sia il conflitto arabo-israeliano o la Seconda guerra del Golfo poco cambia: in ogni caso l’accezione è spesso associata a qualcosa di negativo. I più ottimisti e abbienti invece potrebbero pensare agli Emirati Arabi e agli sceicchi, allo sfarzo e imponenza di Dubai e Abu Dhabi. Di certo, nessuno penserebbe all’Oman, che pure è uno dei paesi più ricchi di storia della penisola arabica. È un’oasi felice, e non solo perché c’è tanto deserto, ma soprattutto perché si tiene distante da quei fanatismi religiosi che hanno tristemente portato agli onori della cronaca alcuni dei suoi Paesi confinanti.
Si definiscono “la Svizzera della penisola arabica”, proprio per questo loro modo di voler sempre rimanere neutrali e, tra le altre cose, recentemente sono anche entrati nella lista nera europea sui paradisi fiscali…
Tutto ruota attorno al sultano Qabus, a capo della nazione addirittura dal 1970 e considerato come una sorta di divinità dai cittadini. Il suo avvento è coinciso con la scoperta delle riserve di petrolio nel Paese che, pur non essendo numerose come quelle degli Emirati Arabi, hanno permesso all’Oman di risollevarsi da alcuni decenni duri e vivere una crescita economica importante. In tutto ciò, l’Oman è però rimasto sempre un passo indietro rispetto alle nazioni confinanti e anche dal punto di vista turistico non ha mai goduto delle attenzioni degli europei. La capitale, Mascate, che ospita il 50% della popolazione totale dell’Oman, è mal collegata e, nonostante un nuovissimo aeroporto, non ha voli diretti verso l’Europa o gli Stati Uniti. Per arrivarci, quindi, è necessario fare almeno uno scalo, con i prezzi dei biglietti che aumentano inevitabilmente e i visitatori che ci pensano due volte prima di mettere mano al portafoglio. Un problema non da poco, che però il sultano sta cercando di ovviare con grandi investimenti sul settore turistico.
La missione è semplice: far conoscere al mondo l’Oman. La materia prima c’è, con spiagge dorate, mare limpido, ideale per fare snorkeling, vista la vastità della fauna marina, ma anche la catena montuosa di Al Hajar permette di far qualche bella escursione tra i wadi, i canyon tipici di quelle zone.
Ma visto che siamo qua per parlare di ciclismo, in bicicletta si può andare? Assolutamente sì e non è un caso che il Tour of Oman sia stata la prima corsa professionistica ad anumare la Penisola arabica. Le strade nuove, larghe e con un bell’asfalto, rendono le escursioni in bicicletta piacevoli, basta restare fuori dalla trafficatissima Mascate. Alcune cime di Al Hajar, distanti circa 150 chilometri dalla capitale, superano i 2.000 metri, pertanto anche gli scalatori possono trovare terreno fertile per divertirsi. Ecco quindi che il sultano Qabus ha deciso di stanziare dei fondi per il turismo sportivo, puntando in particolare sulla vela e il ciclismo. Così la Haute Route, format di corse a tappe per ciclisti amatoriali con molteplici destinazioni in giro per il mondo, ha scelto di organizzare una prima edizione con tre giorni di gara in Oman, che ho avuto la fortuna di seguire.
HAUTE ROUTE OMAN.
Febbraio/marzo era il termine massimo per poter organizzare una corsa ciclistica, visto che da aprile ad ottobre le temperature medie superano abbondantemente i 35°, contro i 25° del periodo novembre/marzo. Diciamo che, in ogni caso, in Oman è difficile soffrire il freddo. Organizzata dalla società Oman Sail, finanziata dal governo omanita, la Haute Route Oman si è sviluppata in tre giornate, proprio nel bel mezzo di Al Hajar, con base fissa al Golden Tulip Hotel della città di Nizwa. 265 partecipanti provenienti da 26 paesi diversi, con un solo italiano, il laziale Paolo Donati, e il dato record di 1/6 dei partecipanti di sesso femminile. Un ospite d’onore: l’ex campione del mondo di Formula 1 Jenson Button, che si è lanciato nel ciclismo con un marchio di abbigliamento tutto suo, Léger, del quale ha prontamente regalato un completo a tutti gli appassionati iscritti alla corsa. Organizzazione pressoché perfetta: la partenza delle prime due tappe era subito fuori l’enorme hotel in cui tutti i ciclisti soggiornavano, erano previste sessioni di massaggi post-tappa per chi li desiderasse, meccanici sempre a disposizione per ogni evenienza, zone rifornimento ben attrezzate e in punti strategici, e discese tortuose neutralizzate per non forzare i corridori a prendere rischi. Le strade non erano chiuse, ma le forze dell’ordine scortavano l’intera carovana in totale sicurezza.
In un Paese in cui l’economia è chiaramente dominata dalle riserve di petrolio, Nizwa e dintorni continuano a distinguersi per la loro agricoltura, con un sistema di canalizzazioni, chiamate falaj, che permettono la coltivazione di cereali, datteri e verdure.
Il percorso ha messo gli amatori a dura prova: la prima tappa, seppur di soli 84 chilometri (tra l’altro accorciata di circa 15 a causa del vento) si concludeva in cima a Jebel Akhdar, dopo una scalata integrale della Green Mountain, l’Alpe d’Huez d’Oman, simbolo della corsa dei professionisti, dove hanno vinto anche Chris Froome e Vincenzo Nibali.
Si parla di 19,5 chilometri di scalata all’8,2%, 1400 metri di dislivello per arrivare a quota 2.300. È quindi chiaro che per molti sia stato un inizio un po’ traumatico. La seconda frazione, sulla carta un po’ più semplice, ha invece tagliato le gambe ai corridori ancora più che la prima. Caldo e vento l’hanno infatti resa un incubo per alcuni di loro, con 145 chilometri che sono sembrati infiniti. I 22 chilometri di scalata di Jebel Haat, nel bel mezzo della tappa, hanno fatto addirittura alzare bandiera bianca a qualcuno. Quantomeno, si sono potuti consolare con un panorama mozzafiato una volta arrivati in cima, rifornendosi con qualche dattero omanita, frutto immancabile in ogni pranzo o cena di questo Paese. La “passerella” finale è stata una cronometro individuale di 9,4 chilometri, con partenza dalla cittadina di Al Hamra e arrivo a Misfat, un suggestivo villaggio che si erge sopra un enorme palmeto, caratterizzato da abitazioni costruite col fango, in cui si può assaporare il classico caffè omanita e osservare la vita tipica, così distante dalla cultura europea, degli abitanti di queste zone. L
a prova, comparandola con le due tappe precedenti, era poco più che una passeggiata, ma i quattro chilometri all’insù finali, con una pendenza media dell’8%, hanno costretto i corridori ad un ultimo sforzo, prima di potersi godere la medaglia riservata a tutti coloro che portavano a termine la corsa e il “pacco premio”, con polo e zaino della Haute Route. Per la cronaca, a vincere questa prima edizione sono stati lo svizzero Guillaume Bourgeois tra gli uomini e la britannica Helen Sharp tra le donne.
Rotto il ghiaccio, l’Oman spera di poter diventare meta turistica per cicloamatori e non. La corsa dei professionisti è in buone mani, visto che è organizzata da ASO, ma per poter fare il salto di qualità e non farsi schiacciare dal confinante UAE Tour, avrebbe bisogno di una copertura televisiva in diretta, e non limitarsi ai semplici highlights che l’organizzazione emette diverse ore dopo la fine della tappa. Lo spettacolo tecnico offerto nelle prime dieci edizioni è stato assolutamente pregevole, con tanti corridori di primo piano che ci hanno partecipato e vinto, ma il richiamo mediatico ancora non è sufficiente a garantire un futuro glorioso al Tour of Oman. Il fatto che gli autoctoni facciano fatica ad appassionarsi a questo sport, come dimostrato dall’esiguo numero di persone che si è riversato sulle strade, sia per la corsa professionistica che in questa Haute Route, non è un fattore che gioca a favore degli organizzatori. Sia chiaro, la stessa cosa capita negli Emirati Arabi, ma lì le risorse economiche riescono ad oscurare bene questo problema.
L’Oman ha voglia di entrare a far parte stabilmente della sempre più accentuata globalizzazione del ciclismo, ma per farlo avrà bisogno di convincere prima di tutto i suoi abitanti a dare una chance a questo sport, e poi spingere coloro che il ciclismo l’hanno inventato, vale a dire gli europei, a prendere la loro bicicletta, imbarcarla in aereo, volare per nove ore, scendere, e cominciare a pedalare in mezzo alle bellezze naturali, che sicuramente ci sono, del loro Paese. La missione è tutt’altro che facile, ma solo continuando ad investire e a far conoscere la bicicletta in tutto il Paese l’Oman potrà entrare nel cuore degli appassionati di ciclismo.