Maradona. Lo rivede a Cesenatico, anni dopo che avevano giocato insieme a Napoli. Circondato, assediato, assillato, Maradona “mangia qualcosa e si rende disponibile con tutti. A un certo punto la ressa è troppa, se ne deve andare facendosi largo a fatica. Arriva all’auto e si ricorda di non avermi salutato. Rifà la via crucis, si scusa, saluta e ancora indietro alla velocità di un metro ogni cinque minuti. Come fai a non voler bene a uno così?”.
Che cosa c’entra con il ciclismo? “Ci piaceva giocare a pallone” (Rizzoli, 254 pagine, 17 euro) di Eraldo Pecci, ieri centrocampista dai piedi d’oro e oggi commentatore televisivo dalla battuta immediata, è un libro di memorie calcistiche, fra curiosità e aneddoti, storie e retroscena, dalle squadre dei preti e dei frati al Bologna e alla Nazionale, dal campo dei ferrovieri al Robert Kennedy Stadium di Washington, da “Zelinda”, che a carte se citava un’ala sinistra significava che era senza briscole, a Mauro Bellugi, uno da compagnia, “quella sera ha iniziato i suoi racconti alle 20 andando avanti senza prendere fiato e, quando alle 23 uno di noi ha aperto bocca, è sbottato: ‘Mi interrompete sempre, non mi fate mai finire un discorso’”. Ma c’è anche ciclismo. Poco, ma c’è.
Quando Pecci spiega che suo fratello maggiore Maurizio “superò l’esame di terza media, i miei genitori gli regalarono una bella bici nuova. Quando toccò a me, perché a lui l’avevano rubata poco tempo dopo l’acquisto. Una logica che non faceva una piega. ‘Maurizio, ti prego, non farti fregare la macchina, sennò mi toccherà girare a piedi tutta la vita’ fu la mia reazione”.
Quando Pecci ricorda “quel vecchietto che in un giorno di fortissimo maestrale spingeva sui pedali della sua bicicletta con pochissimo profitto e vedendo che lo guardavo mi disse: ‘Burdel, arcordte che sol e vent ut da in tla faza: tot chielt it da in te cul’ (ragazzo, ricordati che solo il vento ti dà sulla faccia, tutti gli altri ti danno nel…)”.
Quando Pecci racconta di quella volta in cui al suo amico “Paolo dlla Sip”, così detto perché lavorava per la compagnia telefonica, “gli legarono la bici alla tenda da sole della parrucchiera e di certo lui non pensò di guardare lassù, quindi tornò a casa in autobus”. Non è finita. “A quell’ora era assai affollato e Paolo rimase sugli ultimi scalini d’entrata, con la porta del mezzo che non si chiudeva e l’autista che non partiva. Molti imprecavano, ma Paolo, sordo com’era, non faceva una piega. Allora un passeggero vicino gli disse di spostare il piede per permettere alla porta di chiudersi. Lui si scusò e lo spostò, spiegando a tutti col suo vocione che non se ne era accorto perché quell’arto era di… legno”.
Quando Pecci narra della vita che si passava “in piazzetta davanti al bar, molte famiglie, molti bambini. Chi imparava a camminare, chi ad andare in bicicletta, chi a scrivere. E con loro c’era sempre un vecchio pastore tedesco al quale i bimbi facevano di tutto, lo cavalcavano, gli tiravano la coda… Lui li faceva fare, ma se qualcuno si azzardava a sgridare un bimbo, si metteva in mezzo mostrando i denti. Un giorno quel meraviglioso cane sparì. Era arrivato il tempo di morire e andò discretamente a farlo lontano da lì. Lo trovarono all’ombra di un albero vicino al fiume Reno”.
Quando Pecci incontra Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé: “Fisicamente era perfetto; sembrava un felino, una pantera. Non molto alto, circa uno e settantacinque, ma proporzionato, armonioso in tutto il corpo e dava un senso notevole di forza, agilità e potenza. L’impressione che mi diede fu che sarebbe andato forte anche se avesse scelto di correre in bicicletta o di nuotare in piscina”.
Quando Pecci parla di Beppe Conti, che scriveva di calcio per “Tuttosport” e poi per “La Gazzetta dello Sport”: “Era bravo, ma la sua vera passione era il ciclismo. Un giorno Beppe arrivò al campo euforico e quando fu il momento dell’intervista all’allenatore, che tutti i giorni (mica come i tecnici di oggi) si concedeva alla stampa, Beppe comunicò con il viso raggiante che finalmente, con sua grande gioia, il giornale lo aveva spostato al ciclismo e che qualcuno lo avrebbe sostituito al più presto. Era un addio in pratica, Radice (allenatore del Torino, ndr) gli allungò la mano per una vigorosa stretta e gli disse: ‘Bravo ragazzo, buona decisione, perché tu di calcio non capisci un cazzo!’. Beppe è ancora lì che ride”.
“Ci piaceva giocare a pallone” è un amarcord che colpisce tutti, con o senza pallone, con o senza bicicletta. Pecci ha il senso dell’umorismo e della leggerezza. Un dono. Un talento.