Nessun dilettante, nella storia del ciclismo italiano, ha mai vinto tante corse come lui: 219. Le ha vinte in volata e per distacco, in Italia e all’estero, da individuale e a squadre, con la maglia della società e con quella della nazionale, da favorito e da sfidante, da capitano e da quasi capitano, a sorpresa ma mai per caso. Perché vincere, per lui, era l’unica cosa che contava.
Flavio Martini riceverà la Borraccia d’Oro domenica 22 ottobre, alle 12.30, nel ristorante all’Oasi Campagnola di Mareno di Piave, nella manifestazione annuale organizzata dall’Associazione ex ciclisti della provincia di Treviso. Con lui sarà premiato anche Bruno Leali, che nel corso della sua carriera si è trovato più a suo agio di Martini nel ruolo di gregario, domestico, “aguador”, cioè portaborracce.
Nato padovano (“A Galliera Veneta, quinta elementare, mai lavorato”) e coppiano (“Coppista, come diceva mio padre, che sopra il letto non aveva la Madonna né il Signore, ma Fausto Coppi, lo amava e lo pativa”), Flavio Martini s’innamorò del ciclismo (“Per eredità e destino”). La prima bici fu costruita a pezzi (“Un pezzo preso di qui, un pezzo raccolto di là”), e con quella partecipò alla prima corsa (“Partii con i copertoni rotti”). La prima corsa fu anche la sua prima vittoria (“A Francenigo di Gaiarine”), nonostante l’emozione (“Tremavo tutto”) e con una strategia istintiva (“Scattai all’ultimo chilometro pensando che, se fossi arrivato fra i primi 10, forse mio padre si sarebbe convinto a comperarmi due ruote da corridore. Pedalai, pedalai, pedalai, e nessuno mi raggiunse”). Come premio, una coppa (“Ce l’ho ancora. Ho tenuto la prima e l’ultima”). L’ultima corsa vinta a Santa Lucia di Piave (“Avevo 33 anni”).
Nella sua eterna carriera da dilettante, Martini ha conquistato due bronzi mondiali nella 100 chilometri a squadre (“Nel 1967 con Bosisio, Marcelli e Pigato, nel 1968 con Bramucci, Marcelli e Pigato”), l’oro ai Giochi del Mediterraneo (“Nel 1967 con Tino Conti, Marcelli e Pigato”), e poi classiche come la Coppa Adriana, il Trofeo Matteotti, il Trofeo De Gasperi, la Vicenza-Bionde, due volte il Giro del Belvedere, e ancora la preolimpica di Città del Messico, le premondiali di Nancy in Francia e di Verviers in Belgio, il Guglielmo Tell in Svizzera. “Vincevo per me e soprattutto per mio padre. E’ stato il miglior papà del mondo. Per 20 anni è venuto a vedermi correre, dovunque e comunque. Stava in disparte, guardava, osservava, commentava, nessuno lo riconosceva, tranne me, sapevo che si metteva a 500 metri dall’arrivo, poi chiedeva ‘chi ha vinto?’, gli rispondevano ‘sempre quello’, allora lui commentava ‘certo, è un succhiaruote’. Al Giro delle Tre Province, a Verona, stessa scena e stesso dialogo. Ma quando mio padre disse ‘certo, è un succhiaruote’, l’altro tuonò: ‘Ma se è in fuga da stamattina’. E a mio padre rifilò uno scappellotto”.
E nella sua eterna carriera da dilettante, Martini ha trascorso due anni tra i professionisti: “Nel 1969 con la Gris 2000, dove ognuno correva per sé e io ero capitano di me stesso, nel 1970 con la Cosatto, qualche volta da gregario di Vito Taccone. La Cosatto era diretta da Gino Bartali. Quando gli confidai che ero stato coppista, lui non se la prese: ‘Non importa – mi rassicurò – non importa’. Bartali era molto meglio come corridore che non come direttore sportivo. Invece di consigliarci e spiegarci, diceva io qua e io là, io questo e io quello. Ma lei era Bartali, sbottai, e io sono soltanto Martini”. Da professionista Flavio sfiorò la vittoria nel Gran premio di Col San Martino (secondo) e al Giro delle Marche (quarto), poi vinse un circuito a Gorizia (“In volata, arrangiandomi da solo come sempre, davanti a Zandegù e Durante, due padovani”).
Perché fenomeno fra i dilettanti e meteora fra i professionisti? Martini azzarda ipotesi. La prima: “Elio Rimedio, c.t. della nazionale, mi voleva sia nella 100 chilometri sia nell’individuale. Così la mattina mi allenavo con la squadra, il pomeriggio facevo il dietro motori. La corsa era una liberazione. Ma ci arrivavo spremuto, sfinito”. La seconda: “La distanza. Abituato alle gare dei dilettanti, dopo 200 chilometri entravo in riserva”. La terza: “Mai fatta la vita del corridore. Un po’ come Meo Venturelli, anche se lui era peggio di me”.
Però, quante soddisfazioni (“Marino Basso non mi ha mai battuto”), quante lezioni (“Severino Rigoni, il tecnico della Padovani, ci diceva: ‘Se state dietro, io non vi do l’acqua e voi vi dovete fermare alle fontane. Ma a me l’ha sempre data perché io stavo sempre davanti”), quanti sogni (“Milano-Sanremo del 1970, in fuga, ripreso sulla Cipressa, con me c’era anche un certo Rik Van Looy”), quanti ricordi (“Taccone faceva baruffa con tutti, ma secondo me aveva ragione lui. Se la prendeva con le squadre che inseguivano i fuggitivi, specialmente quando in fuga andava lui. ‘Lasciate inseguire alla squadra di Merckx’, e aggiungeva: ‘Ignoranti!’”).
A proposito di Eddy Merckx: “Era il più forte, ma voleva vincere tutto. Giro d’Italia, traguardo volante dopo una trentina di chilometri, a Zingonia. Merckx voleva vincere anche quello. Ma per me era tutto, per lui niente. Risultato: primo io, secondo lui. Merckx mi guardò male, poi mi minacciò: ‘Ti faccio smettere di correre’. Gli risposi: ‘E io entro nella storia perché ti ammazzo’. Merckx mi guardò stupito, poi scoppiò a ridere. E diventammo amici”.