Il gentiluomo del ciclismo. Così talentuoso, da ragazzo, che lo chiamarono Coppino, tanto ricordava il Campionissimo. Così bravo, da professionista, che lo nominarono capitano, vicecapitano, il secondo capitano, l’altro capitano. Così serio, da compagno, che Eddy Merckx non si azzardò a sgridarlo quando lo vide indossare la maglia gialla al Tour de France. Così affidabile, da dirigente, che il Giro d’Italia gli affidò l’organizzazione delle partenze delle tappe.
Italo Zilioli riceverà il Cuore d’argento del Premio Emilio e Aldo De Martino, venerdì 6 ottobre alle 11.30, nel Museo del Ghisallo (i premi Vincenzo Torriani andranno a Moreno Argentin, Pier Bergonzi e Giancarlo Brocci). Ottantadue anni, torinese, Zilioli ha vissuto 15 anni da pro, con una quarantina di vittorie, tre secondi posti consecutivi al Giro d’Italia (dal 1964 al 1966, ma anche un terzo, un quarto e un quinto). Ed è stato un fuoriclasse per eleganza, stile, onestà, semplicità, trasparenza. Tutta merce rara, sempre più rara e, per questo, sempre più preziosa. Poi non ha mai abbandonato la bicicletta e il ciclismo: da praticante, da ambasciatore, da responsabile delle partenze al Giro d’Italia. E da testimone, da narratore, da affabulatore. Ascoltarlo è una lezione di umanità.
Zilioli e la bicicletta: “Passavo le vacanze estive lavorando per un mio zio carpentiere. Con qualche mancia più i soldi del papà acquistai la prima bicicletta”, “Andare in bici era evadere da casa, navigare nell’Atlantico, scalare l’Everest, volare in un’avventura”, “Da allora non ho mai smesso di andare in bici, neanche adesso, solo d’inverno rallento, perché in bici c’è sempre qualcosa che mi attrae, e allora ritorno giovane. Gli occhi sono sempre quelli, e ho anche la fortuna di non portare gli occhiali”.
Zilioli e il ciclismo: “Finché mi venne la voglia di attaccarmi il numero sulla schiena. Non sapevo nulla, seguivo l’istinto, sbagliavo e imparavo. Ho continuato a fare così anche da professionista: seguivo l’istinto, sbagliavo e, spesso, perdevo. Ma quella era la mia natura, e se tornassi indietro, rifarei le stesse cose, le stesse corse, probabilmente gli stessi errori, e non potrebbe essere diversamente, altrimenti sarei una persona diversa”, “Ero insicuro. Sergio Zavoli, al ‘Processo alla tappa’, disse che ero ‘esile, incerto, sensibile ai turbamenti e alle emozioni come una fanciulla o un intellettuale tormentato’. Aveva ragione. Quando le cose giravano storte o andavano male, mi abbattevo, e invece di reagire, mi rassegnavo. ‘Ecco - mi dicevo – il solito Zilioli’”.
Zilioli e gli altri: “Jacques Anquetil, il più grande a cronometro e nelle corse a tappe. Merckx, il più grande dovunque e comunque. Anquetil calcolava, Merckx ammazzava. La sera, a tavola, con i compagni di squadra, ancora sbalorditi, commentavamo i suoi numeri. Merckx sosteneva che molto dipendesse dalla testa. E ripeteva: ‘Le gambe non hanno la testa’. Voleva dire che le gambe non hanno freni mentali”, “Michele Dancelli perdeva la testa per le donne. Una mattina, in allenamento in Riviera, all’inizio del Poggio incontrammo una signorina con un cagnolino: lui sparì e riapparve solo nel pomeriggio, a Imperia, ancora esaltato”.
Zilioli e i soprannomi: “Quello di ‘Coppino’, cioè piccolo Coppi o nuovo Coppi, non mi ha aiutato. Non tenevo le responsabilità. Sapevo di non essere come lui, però sognavo di assomigliargli. Quello di ‘eterno secondo’ lo prendo come un titolo di merito. Anche Raymond Poulidor, un simpaticone, semplice e genuino, è stato un eterno secondo. Ma su di lui sono in vantaggio ai punti: io sono riuscito a indossare la maglia gialla al Tour de France cinque giorni, e lui neanche uno”.