La Milano-Sanremo è un mistero, un enigma, un rebus, un giallo, un thriller. Un gran casino. E come nei film giusti, l’assassino, cioè il vincitore, si scopre soltanto alla fine, magari con un colpo di scena. Tranne quando c’era Eddy Merckx. Lui, che fosse il vincitore e l’assassino, lo si sapeva fin dalla prima scena, alla partenza, anzi, ancora prima, all’iscrizione.
Di Milano-Sanremo ne ho corse sei. Quella che ho rischiato di vincere è stata l’edizione del 1967. Contro Merckx si era formata, incredibilmente, una sacra alleanza italiana. A una cinquantina di chilometri c’ero anch’io fra gli attaccanti, con Gimondi, Bitossi e Motta. Merckx rispose. Ma quando scoprì di essere rimasto senza gregari, Merckx pensò che la migliore difesa fosse l’attacco. La verità è che Merckx aveva solo quella strategia: attaccare. E così attaccò. E se ne andò. Panico.
Il primo a inseguirlo fu Motta, poi Gimondi e Bitossi. Io rintuzzai tutti gli altri tentativi di accodarsi ai quattro uomini in fuga. Ne avevo, ma non potevo. In volata, il Cannibale s’impose per distacco su Motta, Bitossi e Gimondi. Noi arrivammo a un soffio dal prenderli: se avessi potuto aiutare il gruppo, forse li avremmo presi, ma avevo Gimondi là davanti. Nella volatona partii lungo, strasicuro di vincere. Invece Vanconingsloo m’infilò di un’inezia e mi soffiò il quinto posto.
L’anno dopo, il 1968, mi sentivo di nuovo un leone. Al Giro di Sardegna, in volata, ruggivo. Vinsi due tappe e una semitappa, si chiamava semitappa ma era di 162 chilometri. Alla Tirreno-Adriatico feci qualche piazzamento, due giorni prima della Milano-Sanremo arrivai secondo in un circuito, fisicamente ero tostissimo, ma psicologicamente fragilissimo. Avevo deciso che una vittoria alla Milano-Sanremo mi avrebbe cambiato la vita, nel bene, ma così bene che mi avrebbe fatto male. Se vinco – mi dicevo - poi mi monto la testa.
Se vinco – mi ripetevo – rovino la mia famiglia. Se vinco – mi convincevo – poi chissà che cosa mi succede. Forse avevo visto troppi film in cui un pugile è costretto a entrare in un giro di mafiosi o in cui un campione di baseball spreca il suo talento o in cui un cantante dilapida la sua ricchezza. Forse sarà stata una crisi mistica, o esistenziale, o più probabilmente un’astinenza alcolica. Non saprei. Però, in via Roma, primo Rudi Altig, mio compagno di squadra. Poi altri. Il gruppo a una quindicina di secondi, regolato da Van Looy su Karstens. Io conclusi la gara per onore di firma, ventottesimo, dietro a quel Vanconingsloo, ma davanti a Merckx.
Insomma, Sanremo non mi portò fortuna. Nessuna vittoria, nessuna miss. Anche se ci sarebbe una storia da raccontare, quella con una cantante che nel 1965 aveva vinto il Festival di Castrocaro e nel 1966 aveva partecipato al Festival di Sanremo. Non era stata fortunata: eliminata prima della finale. Non era bella, ma era tanta. Aveva una bellissima voce, era simpatica e intraprendente. E in hotel, sull’ascensore, mi saltò addosso. Era proprio tanta. Si chiamava – si chiama, c’è ancora - Luciana Turina. I rotocalchi ci ricamarono su: la cantante e il corridore, una “love story”.
(fine della seconda e ultima puntata)
(questa la prima puntata: https://www.tuttobiciweb.it/article/1678739767)