Cadde, si rialzò, ricadde. Per sempre. La morte in diretta, il martirio in bici, l’immolazione del ciclismo. La data, che ha scavato un abisso fra il prima e il dopo: il 13 luglio 1967. La corsa, che ne è stata violentata indelebilmente: il Tour de France. Soprattutto il luogo, che da allora si è tinto di un lutto misterioso e scandaloso: il Ventoux. E lui, vittima martire eroe: Tom Simpson.
Lorenzo Fabiano ha scritto “I fiori del Ventoux” (Absolutely Free, 206 pagine, 16,90 euro), e i fiori sono le borracce lasciate come omaggio, per affetto e solidarietà, passione e amore, o soltanto come memoria e trofeo da cicloscalatori e cicloturisti, ciclostorici e ciclopellegrini, a quell’inglese che a tre chilometri dalla vetta di un monte senza vetta, pelato, bruciato, deserto, eppure così generoso di storia e fascino, così ricco di attrazione e sfida, così pieno di vento, dette l’anima al ciclismo.
Fabiano ripercorre la vita, e poi la morte, e poi la nuova vita, di Simpson. La sua origine in una terra di miniere, esatto contrario altimetrico della sua fine. La sua emigrazione agonistica, in Francia. La sua stranezza se non unicità, un corridore inglese era curiosità, rarità, anomalia. I suoi trionfi di un giorno, dal Fiandre 1961 alla Sanremo 1964, dal Mondiale 1965 al Lombardia 1965. La sua famiglia, i suoi compagni e le sue squadre, il suo stile. E il suo ciclismo, il ciclismo della sua epoca, così avventuroso anche nelle trasgressioni, amfetaminico e incontrollato. Fino a quella data, a quella corsa, a quel luogo. La ricerca di una verità ancora incerta. E quel monumento celebrato da tutti quelli che scalano, che si misurano, che si specchiano sul Ventoux.
La tredicesima delle ventidue tappe, venticinque contando tre tappe che corrispondevano a sei semitappe, e pensare che il percorso totale prevedeva 1400 km più di quello del 2022. Niente sconti. La partenza da Marsiglia, il
Ventoux da Bedoin, l’arrivo a Carpentras. Vento, sole, caldo, umidità. Insopportabili. Facile dirlo adesso. Ma allora, anche adesso, si corre e basta. E Simpson corre. La classifica non lo aiuta: “Il podio è a quattro minuti”. Le condizioni fisiche neanche: “E’ malconcio, ha perso peso, la gastroenterite lo ha fiaccato, ma rimane in corsa”. Anche lo stato d’animo è sottosopra: “La sera, in albergo a Marsiglia, ha un acceso scambio di vedute col suo agente Daniel Dousset”. Sulla salita perde le ruote di Poulidor e Jimenez, ma sembra tenere quelle di Janssen e Aimar. Fatica, sete, crisi: “Chiede acqua, il regolamento dice che i corridori hanno a disposizione quattro borracce d’acqua, due in bici e due ai rifornimenti. Quando si rimane a secco, ci si ferma a un bar o a una fontana”. Gli passano “un goccio di cognac”, “va bene lo stesso, basta bagnarsi le labbra secche incendiate, e poi l’alcol allevia la fatica”. Qui il calvario: Simpson che zigzaga e cade, Simpson che ordina di essere rimesso sulla bici, “put me back on my bike” o forse soltanto “on, on, on”, poco cambia, solo letteratura, solo epitaffio, Simpson che si aggrappa al manubrio, la bici che si trasforma in una croce e il manubrio in rosario o Bibbia o fiore. Ma nessun fioretto e nessuna preghiera avrebbero mai potuto restituirlo alla vita.
Fabiano ricostruisce i fatti, il ritrovamento di tre confezioni di amfetamine nelle tasche (due vuote e una a metà, ma quantità non decisive nel corpo), di analisi che sembrano trovare la causa della morte in diversi fattori (caldo, disidratazione, spossatezza, oltre ai farmaci stimolanti), racconta anche di Barry Hoban (il gruppo aveva deciso che a vincere la successiva tappa sarebbe stato però un altro inglese, Vin Denson, il migliore amico di Simpson) e di Roger Pingeon che si aggiudicò quel Tour, cita Ercole Baldini e Eddy Merckx (l’unico corridore non inglese a partecipare al funerale), aggiunge interviste alla figlia Joanne, a Franco Balmamion, che a quel Tour c’era (terzo nella classifica finale, “Seppi della sua morte quando eravamo in albergo”) e Gianni Motta, che non era lì, ma che lo aveva conosciuto bene (“Ero davanti alla tv”, “Lo sbaglio fu rimetterlo in bicicletta”), ai giornalisti inglesi Chris Sidwells e Herbie Sykes, oltre alla prefazione di Renzo Puliero e alla postfazione di Eros Poli, vincitore della tappa del Ventoux nel 1994, da solo, per distacco, e secondo fu Marco Pantani.