A trentadue anni e mezzo, Dino Zandegù decise di appendere la bici al chiodo: “Andavo ancora fortissimo, ma solo in discesa. Invece in salita facevo una fatica che non saprei come definire, se terribile o bestiale. Sentivo che era giunto il momento fatidico. Mi guardai intorno, e vidi che avevo diverse prospettive, poi mi guardai dentro, e capii che non sarei morto di fame, e allora organizzai il gran finale, un’uscita di scena che nessuno avrebbe mai più dimenticato”.
Era il 7 ottobre del 1972. La stagione si concludeva con il Giro di Lombardia, che tutte le corse si porta via. “Da Milano a Como, 266 chilometri, 158 corridori, la partenza alle 8.20. Al pronti-via scattai una, due, tre volte, e gli altri corridori mi guardavano come se fossi impazzito. Scattai altre novantasette volte, totale cento, per andare in fuga, ma il gruppo non mi concedeva il via libera, per loro era troppo presto. Al centounesimo e ultimo tentativo, quando ormai stavo per rassegnarmi a un’uscita di scena in sordina invece che con la grancassa, in tono minore invece che maggiore, verso Cinisello Balsamo riuscii finalmente a prendere 100 metri, che diventarono 200, e poi 500, e a quel punto, finalmente, il gruppo mi mollò. Ero da solo. Ma mi feci largo e m’involai. Il vantaggio si dilatava. Un minuto, due, tre, se non sbaglio giunse fino a 10 minuti e ventisette secondi, ma può anche essere che mi sbagli. Comunque un vantaggio notevole, che si era allungato a dismisura, tanto che ne parlarono alla radio e ne avrebbero scritto sui giornali. Da Milano a Erba, poi subito il Ghisallo, da scalare due volte. La seconda volta, a Canzo, o forse a Barni, sentii che le energie scarseggiavano, che le forze stavano diventando debolezze, che si era accesa una lucina rossa ed ero entrato in riserva, e allora mi accostai al bordo della strada, scesi dalla bici, l’appoggiai a un paracarro e cominciai a gesticolare. Ricordo che c’erano un capitello con i fiori e la statuina di una Madonna, a meno che non fosse una visione per la stanchezza e l’eccitazione e la situazione. Il primo a fermarsi fu Vincenzo Torriani, il patron del Giro d’Italia e anche del Giro di Lombardia, che era sull’ammiraglia proprio dietro di me. Poi si fermarono anche i fotografi e i giornalisti. E lì annunciai ufficialmente il mio ritiro dalle corse. Furono applausi, e furono sorrisi, e furono evviva, e furono osanna nell’alto dei cieli. La chiudevo lì, ma la chiudevo alla grande, in testa alla corsa, da corridore vero. Un finale col botto. E quando arrivò il gruppo, ci furono momenti di sentita commozione: io che salutavo gli altri corridori, gli altri corridori che salutavano me, e il pubblico che salutava tutti. Insomma, un salutificio generale”.