Io quando arriva la primavera sono l’uomo più felice della terra, o comunque sto tra i primi dieci, ma c’è un motivo per cui questa primavera in particolare mi mette un po’ di mestizia, più della solita, causa pandemia. Questa è una maledetta primavera che si porta via la specialissima primavera del ciclismo in Italia, una primavera che chiamiamo primavera anche se termina esattamente il 21 marzo, quando comincia la primavera propriamente detta. Per non incartarmi oltre: la primavera effettiva è arrivata e ha spostato il circo ciclistico fuori dai nostri confini, per non restituircelo più. Una gran brutta notizia. Per ragioni singolari e spero irripetibili, abbiamo finito di gustare menu pregiati e piatti raffinati. Fine della festa. E le ragioni provo a spiegarle subito.
Molto semplice: quest’anno, partendo dalle Strade Bianche e arrivando alla Sanremo, passando per la Tirreno-Adriatico, l’Italia ha potuto assaporare un superbo concentrato di ciclismo enorme. Il livello della corse, altissimo. Lo spettacolo, pure. E perché mai? Ma perché come dicono i sapienti la corsa la fanno i corridori, e casualmente noi stavolta ci siamo ritrovati qui i meglio fenomeni del momento, mai - o quasi mai - come stavolta. Parlando di corse in linea, cosa c’è di più e di meglio del trio Van Aert - Van der Poel - Alaphilippe? Tra l’altro non in gita premio o in seduta di preparazione, ma allupati da una fame atomica di vittorie? E poi la corsa a tappe, la Tirreno: tanto per non parlare a vanvera, ripropongo qui un ordine d’arrivo che spiega meglio di me, quello a Prati di Tivo: Pogacar, Simon Yates, Higuita, Landa, Quintana, Almeyda, Fabbro, Carr, Van Aert, Fuglsang, Bernal, Thomas. E ho detto tutto.
Poi è vero che la Sanremo se l’è portata via un outsider, ma queste sono le vicende della vita, basta guardare alle sue spalle e il discorso torna di nuovo: tutti lì, gli allupati, in un eterno - purtroppo per modo di dire - campionato del mondo. Chiudendola qui: alla (ciclo)primavera italiana è mancato in definitiva solo Roglic, parlando di Rotary contemporaneo. Tutto il resto del dream team c’era. E come c’era: picchiandosi di brutto, al meglio, altro che inizio soft in vista della grande stagione.
Io non ho problemi a dirlo: mi sono divertito come un matto. Ed è proprio il motivo per cui adesso mi ritrovo mesto. Adesso so che dalle nostre parti la pacchia è finita. Appuntamento con quel che resta alla stagione dei saldi, all’amatissimo Giro di Lombardia. E nel frattempo? Nel frattempo stringere la cinghia. Accontentarsi. Fare finta che. Guardare sempre all'estero. Il grande circolo è partito per l’altrove, lontano da noi: le classiche del Nord, poi il Tour, poi le Olimpiadi, poi il Mondiale. Tutto alla larga dall’Italia.
Le sento bene queste voci di sottofondo. Sono i saccenti che già mi impiccano al ridicolo, dicendo che mi sono scordato del Giro. Vorrei metterli tranquilli: non mi sono scordato proprio per niente. So benissimo che a maggio c’è il Giro, ma purtroppo so anche che Giro sarà.
Sì, sarà un Giro lontanissimo parente, il parente povero, della sontuosa primavera italiana. Vado subito al dunque. Al prossimo Tour, per classifica e per tappe: Pogacar, Roglic, Geo-eccetera, Thomas, Van Aert, Van Der Poel, Alaphilippe. E resto all’essenzialissimo. Per passare subito al Giro. Ecco, appunto, cosa ci riserva il Giro: restando anche qui all’essenziale, due grandissimi talenti come Evenepoel e Bernal, però guarda caso entrambi in convalescenza, più una gloria nazionale come Nibali, che però non possiamo più collocare ai livelli dei Pogacar e dei Roglic, più una scommessa tutta nostra come Aru, più un regale palliativo come Ganna. Grosso modo, il confronto è tutto qui. Definirlo impietoso è operazione di delicatezza umana.
Qualche scimunito sicuramente dirà che parlo così per partito preso, con il sottile piacere del disfattista antitaliano. Ma proprio perché scimunito, insinua a questo modo senza sapere che il Giro è la cosa che amo di più del ciclismo, per tanti motivi che non interessano a nessuno, ma che sono alla base di una passione infuocata. Con tutto questo, o forse proprio per questo, non posso però nascondermi la verità. Più o meno, l’edizione 2021 si accoda per livello e prestigio a quelle di certe annate in cui dovevamo inventarci un’esaltazione collettiva sui duelli tra Savoldelli e Simoni, senza nulla togliere.
Dire la verità, guardare la verità, non significa voler male al Giro. Dal mio punto di vista significa amarlo se possibile ancora di più, per cui il dispiacere. E allora, anche se le parole grondano sangue, non bisogna infilare la capoccia sotto la sabbia come i grossi pennuti: diciamolo apertamente, ad esempio la Tirreno di quest’anno può guardare dall’alto in basso il Giro che arriva. E se qualcuno mi dice che poi comunque la corsa la fanno i corridori, sottoscrivo immediatamente, però con un’aggiunta: dipende anche da quali corridori. Non so se mi spiego.
da tuttoBICI di Aprile