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L'ORA DEL PASTO. RESISTENZA CASALINGA? PERLE D'ARCHIVIO - 25
di Marco Pastonesi | 06/04/2020 | 07:48

 

Andai a trovare Quirico Bernacchi a casa sua, a Pescia. Mi aprì la porta, il tinello e poi il cuore. Che era grande.

“Mia mamma si chiamava Graziosa, lo era di nome e di fatto, un santa. Noi eravamo tre fratelli e cinque sorelle, io il settimo, e la mamma ci contentava tutti. Mio padre lavorava all’ufficio postale, faceva anche il mediatore di bestiame, ed era un risparmiatore”.

“Cominciai a correre nel 1931, due garette paesane a Borgo di Buggiano, e non era necessario essere tesserati, prima con la mia carretta senza parafanghi, poi con una bici mezzo sportiva prestatami da Lello Betti. Nel 1932 m’iscrissi all’Unione sportiva Pesciatina, la prima prova a Firenze. Ero preparato: facevo ginnastica e spaccavo la legna con la scure, non avevo una bicicletta perché ero senza soldi, usavo quella fatta per mio fratello da un certo Napoli, metà fabbro e metà meccanico, a San Salvatore di Montecarlo”.

“Da allievo non avevo tanta esperienza, però stavo con i primi, anche perché stando dietro non si combinava nulla. Ne vinsi tante. All’inizio mi chiamavano ‘lo sconosciuto’ ed erano tutti a bocca aperta. A fine stagione la Federazione mi passò d’autorità dilettante. Stesso anno di Bartali: il 1914. E quando fui finalmente pronto, in salita Bartali staccava per ultimo me. Era il 1932. Si correva a Forcoli. Ci andai in bici con mio padre: 35 chilometri, poi la gara, poi altri 35 chilometri. Sullo strappo di Peccioli staccai Cesare Del Cancia, poi alla fine lui primo e io secondo. Nel 1933 passai alla Pistoiese. Fui campione italiano giovani fascisti a squadre (con Cecchi, Simoni e Gherardini a Terni) e con loro invitato a Roma per essere premiato (ma il Duce non c’era), vinsi a Peccio (e Bartali fu terzo), e ai campionati italiani dilettanti in fuga caddi perché un cane mi attraversò la strada. Così nel 1934 feci 13 vittorie, nel 1935 otto, fra cui il campionato toscano, perché andai militare, in fanteria, ed era vita dura, e quando conquistai la Coppa figli del Duce (secondo Vicini, quarto Cottur) in premio ricevetti una Legnano. La detti al capitano e continuai con la mia Cicognani di Forlì”.

“Nel 1936 partecipai ai Mondiali di Berna, in Svizzera. Era dura espatriare. Costante Girardengo, commissario tecnico, mi disse: ‘L’hai in mano, attento’. Pioveva. Bucai vicino all’arrivo. Favalli fece secondo. Nel 1937 passai alla Parioli dei fratelli Lazzaretti di Roma, la ditta vicino a Porta Pia. C’erano anche Scorticati, Arcangeli, Toccaceli, Gambacurta e Savelli. E partecipai al mio primo Giro d’Italia. Partii bene. E alla seconda tappa, ad Acqui Terme, conquistai la maglia rosa. Poi fu battaglia grossa: tutti contro di me, gli squadroni si allearono per eliminare i giovani, giù dalla Scoffera cadde Olmo, non avevo più collaboratori e persi la maglia rosa. Nella Viareggio-Livorno aveva la possibilità di riprendermi la maglia rosa, ma mi si ruppe il cambio prima di entrare in pista e vinse Bizzi. Poi mi feci male e a Pescara mi ritirai”.

“Quarto nella Genova-Nizza, quarto nel Gran premio Armistizio, qui solo a 50 chilometri dall’arrivo ma ripreso vicino all’arrivo. Alle riunioni prendevo 500 lire, ma fui multato di 200 lire dall’Uvi per non aver fatto il saluto fascista”.

“Franco Pretti, sardo, ex marciatore, segretario di Bruno Mussolini, mi fece da manager a percentuale. Mi disse: ‘Dopo la Befana, vieni a Roma da me’. Aggiunse: ‘Ma se sgarri, vai via’. A Roma, nel mio bugigattolo, non mi mancava nulla: ginnastica, una bella colazione abbondante e poi via in bicicletta, ma tutto diverso da quello che avevo fatto io, imbastendomi di chilometri, qui facevo solo 90 chilometri ma tutti i giorni, dietro moto gli ultimi chilometri, poi doccia e massaggi. A Roma scoprii l’America”.

“Niente Milano-Sanremo, puntavo al Giro d’Italia. In programma il Giro di Campania in due tappe. Non ero accasato, trattavo con la Gloria. C’erano ‘i leoni’ della Bianchi e poi Olmo, Leoni, Vicini, Di Paco... Le strade erano tremende. La prima tappa persi borraccia e portaborraccia. Nessuno mi aiutava, mi rivolsi a Italo Villa, il massaggiatore della Legnano, che mi dette una borraccia vuota, perché se fosse stata piena mi avrebbero squalificato, vidi una fontana, per fare più in fretta non riempii la borraccia dallo zampillo ma dalla vasca, ma non ripresi più gli altri. La seconda tappa battagliai, da solo e senza squadra, e feci quinto”.

“Pretti combinò con la Gloria, la squadra di Ezio Cecchi, Bernardo Rogora e Bianco Bianchi. Ero io il capitano. Passai altri 15 giorni a Roma per prepararmi per il Giro, ma dopo cinque o sei mi sentii male. Dolori terribili. Un’infiammazione, pensai, ma vado avanti e il dolore passerà. A Milano avevo la febbre a 40, nella seconda tappa, la Torino-Sanremo non vidi un corridore davanti a me e cascai, arrivai al traguardo entro il tempo massimo, la terza tappa da Sanremo a Santa Margherita con Bailo, staccato, salii su un camioncino, ci portò al traguardo, lì c’era Pretti che mi aspettava con un professore, che ordinò ‘Portatelo subito a casa, se ci arriva è una fortuna’. Tifo. E di tifo si moriva”.

“Ricordo uno scompartimento, da tanto che fumavo per la febbre, e mi lamentavo. Quaranta giorni, rinchiuso in casa, bendato, ma mi salvai”.

“Fui richiamato militare per la guerra, alla Farnesina, c’erano anche Guerra, Battesini e Cipriani, a fare qualche gara. Nel 1940 nel Giro di Campania Bartali andò via sulla salita del Vomero e vinse, io finii davanti a Coppi: io ottavo e lui nono. Coppi disse a Pavesi: ‘Dai un bel regalino a Bernacchi’, perché lui aveva rotto una ruota ad Avellino o a Benevento, la Bianchi aveva dato battaglia alla Legnano e io mi ero trovato a inseguire con lui, gli dicevo ‘Fausto, sotto’, poi lo battei in volata. L’ultima gara permessa da Benito Mussolini nel 1940 fu il campionato italiano vinto da Mario Ricci: aggregato alla Legnano, mi davano bici e rimborso spese, non lo stipendio. Poi la guerra. Con la scusa di recapitare un plico, m’imboscai a Roma”.

“Se dopo la guerra avessi ricominciato a correre, Girardengo mi diceva che con tutto quello che avevo passato sarei diventato più forte. Bartali mi voleva da lui. Ma non avevo più fiducia. Avevo aperto un negozio di biciclette sotto casa e vedevo che guadagnavo abbastanza”.

“Erano stradacce, si ruzzolava per via delle buche e dei sassi. Il venerdì si facevano riparare i tubolari da un calzolaio, la domenica si correva”.

“Raffaele Di Paco era un donnaiolo. In albergo con la nazionale – Girardengo, un massaggiatore, un meccanico, un cuoco... – disse che doveva stare da solo. E poi non le pagava”.

“Di Paco, a Littoria, che poi sarebbe diventata Latina, entrò in un bar, prese da bere, disse che avrebbe pagato la Legnano e se ne uscì”.

“Coppi venne da me prima di andare in Africa e sarebbe dovuto tornare dopo l’Africa. Invece non lo rividi più. Mia moglie era in negozio, la mattina presto, e della morte di Coppi lo seppe dalla radio, io ero a casa a preparare il lavoro e me lo disse lei”.

 

 

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