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L'ORA DEL PASTO. LA BICI DEL NOBEL
di Marco Pastonesi | 26/06/2018 | 07:42

“Cosa potrei regalarle?”, domandò a una vecchia amica. “Una bicicletta”, rispose. Perfetta, per una ragazza che avrebbe compiuto, da lì a poco, quindici anni. Perfetta non solo per piacere, per leggerezza, per allegria, ma anche per il lavoro: “Deve attraversare la città due volte al giorno per andare ad attaccare bottoni”. E così gli mostrò “nel retrobottega la bici che usava”, e gli sembrò “davvero un rottame indegno di una donna tanto amata”. Poi, quando andò a comprarle la migliore bicicletta, “non seppi resistere alla tentazione di provarla e feci qualche giro a caso sullo spiazzo davanti al negozio. Al venditore che mi chiese l’età risposi con la civetteria della vecchiaia: Sto per compierne novantuno. L’uomo disse proprio quello che volevo sentire: Ne dimostra venti di meno”.

Che sorpresa: “Io stesso non capivo come avessi ancora la pratica dei tempi di scuola, e mi sentii invaso da una gioia raggiante”. Che felicità: “Cominciai a cantare. Dapprima per me stesso, a bassa voce, e poi a pieni polmoni, dandomi arie da gran Caruso”. Che ebbrezza: “La gente mi guardava divertita, mi gridavano, mi incitavano a partecipare al Giro di Colombia su sedia a ruote. Io facevo con la mano un saluto da navigatore felice senza interrompere la canzone”. E siccome era un giornalista, “quella settimana, in omaggio a dicembre, scrissi un altro articolo audace: ‘Come essere felici in bicicletta a novant’anni’”.

Gabriel Garcìa Marquez pedala letteratura in “Memoria delle mie puttane tristi” (Mondadori), cui arrivo con lentezza (è del 2005) e per caso (grazie a un punto di “bookcrossing”). E’ un romanzo in cui il protagonista festeggia il suo compleanno, lui che non è mai stato con una donna senza pagarla (“Le puttane non mi hanno lasciato il tempo per sposarmi”), innamorandosi di una ragazza da cui, nonostante incontri ravvicinati, rimarrà lontano. E la bicicletta appare, emerge, vola: come regalo, come pegno, fra mazzi di rose gialle e mutande dai baci stampati, fra penne d’oca e calamai, fra acquazzoni grandi e sabbie ardenti. Ma per chi conosce Marquez, l’apparizione della bicicletta non può essere sorprendente. Perché il Nobel della letteratura 1982 scrisse di bici e anche di ciclismo.

Sempre in “Memoria delle mie puttane tristi” racconta “quando un autobus del servizio pubblico travolse una ciclista nel pieno centro della città. L’avevano appena portata via su un’ambulanza e le proporzioni della tragedia erano valutabili dal rottame a cui era stata ridotta la bicicletta sopra una pozza di sangue vivo. Ma la mia impressione non fu tanto per i danni della bicicletta quanto per la marca, il modello e il colore. Poteva essere solo quella che io stesso avevo regalato”.

Il tema della sicurezza ritorna su un articolo scritto nel 1955 per il quotidiano “El Espectador”, quando Gabriel Garcìa Marquez era un giornalista: “A Bogotà e in generale in Colombia, una persona che va in bicicletta non è necessariamente un ciclista. E’ un conducente improvvisato che di solito non rispetta le regole del traffico e si lancia per le vie facendo piroette. Un autista di taxi sostiene che i ciclisti urbani sono molto audaci perché credono – o sperano – che i conducenti di veicoli a motore facciano attenzione a non investirli”. La questione gli stava a cuore per averla vissuta sulla propria pelle, come aveva raccontato in un’intervista: “A 12 anni fui sul punto di essere investito da uno in bicicletta. Un prete che stava passando mi salvò con un urlo: ‘Attento!’. Il ciclista cadde a terra. Il prete senza fermarsi, mi disse: ‘Hai visto cos’è il potere delle parole?’. Quel giorno lo imparai”.

E cinque anni prima Gabriel Garcìa Marquez si era cimentato in una recensione al film “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica (poi inclusa nel libro “Scrittti costieri 1948-1952” (Mondadori, 1998): “E’ un film invulnerabile, uno di quei pochi che non ammettono obiezioni da alcun punto di vista. Coloro che vi hanno preso parte non sono attori professionisti. Sono uomini presi dalle strade di Roma, normali passanti che probabilmente vanno al cinema molto di rado e ignorano i segreti della rappresentazione teatrale, ma che sono così intimamente legati al dramma della vita del dopoguerra, da non avere alcuna difficoltà a cavarsela davanti all’obiettivo. Se a chi recita in ‘Ladri di biciclette’ fosse stata assegnata una parte in un film western o in un’opera di Shaw, molto probabilmente il film sarebbe stato un fallimento. Ma sono stati presi dalla vita, per un momento, e poi immersi, nella stessa salsa, lì dove l’unico elemento strano erano gli obiettivi e gli altri marchingegni tecnici. Ma nulla di più”.

Nulla se paragonato alla serie di servizi scritta sempre per “El Espectador” (e riportata nel libro “Gente di Bogotà 1954-1955”, Mondadori, 1999) su Ramon Hoyos, che vinse cinque volte il Giro di Colombia (e 38 tappe) negli anni Cinquanta: quel trionfo per mancanza di freni, quel profumo per lucidare le coppe, quel torace da miracoli… La più lunga intervista della storia. Durò cinque giorni.

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