Non c’è gara, fra lui, Flavio Milan, e suo figlio, Jonathan Milan. Suo figlio vanta già un titolo olimpico, oltre a un titolo mondiale e tre europei. Lui, zero. Però lui detiene un primato al Giro d’Italia. A pari, si fa per dire, merito con una dozzina di colleghi. Un primato stabilito nel 1993, la prima semitappa della prima tappa, la Porto Azzurro-Portoferraio, all’Isola d’Elba: 85 km. Fuori tempo massimo.
Diciotto squadre, 180 corridori, Bugno con la maglia di campione del mondo: “Io nell’Amore & Vita, con Calcaterra, Molinari, Forconi…”. Pronti, via, sulla prima salita il primo attacco: davanti Roche, dietro la Banesto di Indurain: “E noi ci stacchiamo”. Sulla seconda salita, il Poggio di Marciana, c’è anche un gran premio della montagna: “Scatta Chioccioli, gli s’incolla Pantani, insegue la Banesto, svetta Casagrande. Ma questo me l’hanno raccontato”. Sulla terza salita, il Capannone, evade Argentin, che vincerà per distacco: “Noi, con molto distacco, con troppo distacco, ma si pensava a un condono, si sperava in una grazia, pronti a commuovere i giudici. Data la distanza, il tempo massimo era minimo. Invece niente. I miei compagni si sono salvati, io a casa. Ci andai il giorno dopo. A mani vuote. Avevo solo i percorsi che non avevo pedalato, le altimetrie da attaccare al manubrio”.
Flavio Milan. Un cognome che sa tanto di calcio, invece a Buja, in Friuli, è sinonimo di ciclismo. Una dinastia. Il primo Milan a pedali era Eligio (“Dilettante, forte, ma senza la possibilità di passare tra i professionisti”), il secondo lui, Flavio, poi i suoi due figli, Jonathan, olimpionico e mondiale su pista, che al Giro ha conquistato quattro tappe e due classifiche a punti, e Matteo, nella stessa squadra del fratello, ma nell’Under 23. Comune denominatore, la bici. “La mia prima – racconta Flavio - era da cross, tipo Roma Sport, con il sellone lungo. La mia prima da corsa una Pinarello. La mia prima corsa una G6, vicino a Spilimbergo, era il 1980, avevo 11 anni, arrivai in fondo, il mio ‘rimo piazzamento alla fine dell’anno, terzo, una coppetta di legno, la mia prima vittoria da esordiente, volata a quattro, era il 1982, la ‘rima volta che ho pensato di poter fare il corridore nel 1985, il secondo anno da allievo, settimo al campionato italiano”.
Pane e bicicletta, scuola e ciclismo: “Diplomato all’Istituto d’arte. Intanto correvo e qualche volta vincevo. La vittoria più bella nella cronosquadre ai Mondiali militari, a Gand, in Belgio, in bella compagnia: Bartoli, Rebellin e Ferrari. Passista, tenevo in salita. Vinsi l’Astico-Brenta, il Gran premio Del Rosso, una semitappa del Valle d’Aosta e una tappa della Settimana Bergamasca, partecipai anche al Giro dei dilettanti. Passai professionista nell’Amore & Vita, il direttore sportivo era Lanzoni. Esordii, con caduta, al Laigueglia. Battei il coccige, stortai l’osso, quelle quattro vertebre alla fine della colonna, s’infiammavano, pedalavo e dopo poco mi bloccavo, e allora mi fermai. La prova generale al Giro dell’Appennino: a vincere fu Calcaterra, io andai bene, Lanzoni mi inserì nella squadra per il Giro. Ma la gamba non era a posto. E con il sole e il caldo, s’infiammava”. Ancora il Giro di Svizzera. Poi amen. E Flavio si riqualificò, e si riabilitò, fra i dilettanti: “Nel 1994, primo nel De Gasperi e terzo nel Piccolo Lombardia”. Poi amen davvero.
Ci sono Jonathan e Matteo, adesso: “Jonathan più aperto, Matteo più riservato. Si cerca di andargli dietro, compatibilmente con gli impegni, le distanze, le spese. La passione gli è venuta vedendomi correre. Altri sport, poi il ciclismo, prima come un gioco, poi come indirizzo di vita. Perché è quello che il ciclismo insegna: disciplina e obiettivi. Sapendo che esistono le giornate negative, e che bisogna impegnarsi per superarle, azzerare e ricominciare. Jonathan, per esempio, quando arriva secondo ci rimane malissimo, poi però ci mette il massimo. Questa regola è un po’ così per tutti gli sport. Ti insegnano a vivere”.
Adesso le Olimpiadi di Parigi. La famiglia Milan è sottosopra.