Tour de France. Ma del 1935. La settima tappa è alpina, da Aix-les-Bains a Grenoble, 229 km con tanto di Télégraphe, Galibier e Lautaret. Gli italiani attaccano. Vincerà Francesco Camusso, da solo, secondo a 3’48” Ambrogio Morelli, indipendente, quarto a 9’57” Vasco Bergamaschi. Nella generale il francese Romain Maes mantiene il comando proprio davanti a Bergamaschi, Morelli e Camusso. Intanto, nelle retrovie, la tragedia. Alla periferia di Rioupéroux, un villaggio noto per le sue cartiere, una sessantina di km dopo il Galibier e Lautaret, lo spagnolo Francisco Cepeda cade a terra e batte la testa. Non solo: viene anche investito. Così a terra finisce pure l’italiano Adriano Vignoli. I due si rialzano. Vignoli non ce la fa a proseguire: si è fratturato la clavicola e abbandona la corsa. Invece Cepeda recupera la bici, sale e pedala. O meglio: prova a pedalare. Vacilla. Una scena del tutto simile a quella, 32 anni più tardi, di Tom Simpson sul Mont Ventoux: “Put me back on my bike”, rimettetemi sulla mia bici, la sua preghiera. E’ la forza della volontà, dell’istinto. Così gli spettatori aiutano e spingono Cepeda. Ma lui crolla. Svenuto, esanime. Si è fratturato la base cranica. Viene caricato e trasportato a Grenoble, a 34 km di distanza. Il calvario continua all’ospedale di La Tronche. Cepeda è un duro, ed è duro a morire: resiste altri tre giorni. Ma amen. Il primo corridore morto in corsa nella storia non solo del Tour, ma del ciclismo.
Gli organizzatori del Tour minimizzano, trascurano, sorvolano. Poche righe in cronaca. Lo spettacolo deve andare avanti. Ma ci sarebbero cause e responsabilità. I cerchioni. Si è passati dal legno a una lega chiamata duralluminio, più leggera e resistente del legno, ma ha un difetto: quando la temperatura esterna sale e i corridori frenano, il mastice dei tubolari si scioglie, la gomma scoppia, la ruota si spoglia, la bici balla. Prima della partenza da Parigi, gli organizzatori del Tour forniscono nuovi cerchioni in legno ai corridori più importanti, i professionisti, ma gli indipendenti si devono arrangiare con quello che hanno. E quello che hanno è il duralluminio. Ma in quei giorni di luglio il caldo è tremendo, la temperatura sale e le gomme scoppiano.
Cepeda aveva 29 anni. Era basco. Lo chiamavano Paco, più affettuosamente Paquillo. Anche “el negro de Sopuerta”, un borgo a neanche 30 km da Bilbao, per la carnagione scura. Paquillo febbricitava per la passione per il ciclismo: il primo avversario pare fosse il padre, che intravvedeva i rischi e non i guadagni. Ma i Cepeda erano ricchi di famiglia, una anomalia in uno sport di poveri per poveri. Paquillo aveva cominciato a correre a 19 anni in una squadretta locale. Nel 1930 si era rivelato proprio al Tour, proprio sul Galibier, in salita. Nel 1931 tornò al Tour, l’unico spagnolo in gara: stremato, abbandonò alla ventesima delle 24 tappe. Nel 1933 la sua terza partecipazione, lui e uno scalatore più talentuoso di lui, Vicente Trueba, “la Pulce dei Pirenei”, e siccome non c’era la squadra spagnola, furono inseriti nella formazione dei “Touristes-Routieres”, turisti della strada. Infine quel Tour del 1935, da individuale.
Francisco Cepeda, 89 anni fa al Tour de France. André Drege, ieri durante il Giro dell’Austria. Da Francisco ad André, quanti, tanti, troppi. Vite in pericolo, morti in agguato. Ma se qualcosa si può fare (e si può fare), si deve fare.