Ne compie ottanta, domani, Vittorio Marcelli. Vittorio è un nome esigente, Marcelli nobile. Perfetti per un campione del mondo. Accadde – il passato è remoto – nel 1968: oro dilettanti nella prova su strada. E poi, nella 100 km a squadre, bronzo ai Mondiali del 1967, oro ai Giochi del Mediterraneo del 1967, bronzo alle Olimpiadi del 1968. In bici superava i limiti di velocità delle macchine. Era una macchina umana.
Marcelli è nato (“Nella grotta della casa dei nonni”) a Magliano dei Marsi (“Qui ogni villaggio ha la sua storia”) durante i giorni della ritirata (il 3 giugno del 1944, appunto), subito innamorato del ciclismo (“Da piccolo, mano nella mano di mia madre, sul bordo della strada a veder passare i corridori, promettevo ‘un giorno anch’io’”), cresciuto (tanto: 1,87) nel mito di Fausto Coppi (“La sua morte fu uno shock”), l’anno dopo – era il 1961 - cominciò a correre (“Nel Velo Club Pescara”) e a vincere (“a Luco dei Marsi”), subito la svolta (“Richetto Eboli: ex professionista, più maestro che direttore sportivo, tutti noi gli dobbiamo molto, io, Taccone, Cervellini, i fratelli Meco”), poi dilettante – come dice lui – “a vita” (“Per il blocco olimpico”), azzurro il suo colore (“Dai 19 ai 26 anni”).
L’incontro con Marcelli stavolta a Tagliacozzo, in un appuntamento pubblico voluto prima del Giro d’Italia. Gemme nelle sue memorie. La sua serietà: “Nei ritiri, mai andato in fuga di notte. All’Acqua Acetosa era quasi impossibile: c’erano i cani pastore”. I suoi allenamenti: “Noi del quartetto andavamo via a cinquanta all’ora e tornavamo a cinquanta all’ora, gli altri facevano come i calciatori, poco”. I suoi premi: “Compagnia atleti alla Cecchignola, vinsi la domenica e il lunedì, e Vanni Loriga, capitano, mi regalò quattro giorni di licenza”. La sua Olimpiade: “A Città del Messico, il caldo, le zanzare, un lucernaio, vivevamo separati, appartati, come monaci”.
Quella volta da allievo: “Una corsa vicino a Perugia, la sera della vigilia Eboli si rivolse agli organizzatori, ‘dateci metà dei premi adesso e andiamo da un’altra parte’, fummo considerati degli spacconi, la mattina della gara Eboli impartì gli ordini, stravincemmo la corsa e ci prendemmo tutti i premi”. Quell’altra volta da allievo: “A Bitonto, centosettanta partenti, 142 km a 42 e mezzo di media, rapporto fisso 49x16, e la sera prima a dormire nella sacrestia della chiesa di San Nicola con quattro coperte di flanella”. Quella volta da dilettante: “Arrivato al traguardo e poi in albergo, feci la doccia, mi affacciai alla finestra, vidi gli altri arrivare”. Quell’altra volta da dilettante: “Alla corsa di Berlino Ovest, prima la cronosquadre davanti ai quattro fratelli svedesi Pettersson, poi in una tappa di 215 km, fuga, staccati tutti a uno a uno”.
Meno felice il professionismo: “La prima fila era già occupata, non restava che fare da gregario, il 1969 nella Sanson, il 1970 nella Salvarani”, “Correvo poco, non come avrei voluto e dovuto, ero uno che avrebbe voluto e dovuto correre anche di notte”. Comunque due Giri d’Italia e tre Tour de France, due da dilettante e uno da professionista: “Quella fuga a due, con Taccone, si arrivava a Scanno, avremmo potuto arrivare primo e secondo in casa, ma Taccone non fu d’accordo”, “Quella fuga da solo, si arrivava a Viterbo, 130 km al vento, ripreso a sette dal traguardo”, “Quel secondo posto al Gran premio di Castrocaro, un’ottantina di chilometri a cronometro, a 1’40” da Gimondi ma davanti a tutti gli altri. Sul palco Adriano De Zan mi disse ‘seguimi’, mi mostrò la mia bici De Rosa grezza da crono, per fare più colpo mi convinse a spiegare al pubblico che mi era stata consegnata poco prima della partenza e che non l’avevo mai provata, il che era quasi vero”.
Solo due anni da professionista: “Poi mi hanno fatto smettere”. L’addio fu amaro: “Non trovai il mio nome sulla lista dei partenti. Se vuoi, mi dissero, puoi ancora iscriverti. Ecco bici e maglia, gli risposi”. Ma con la coscienza a posto: “Ho fatto tutto quello che potevo”. Rimanendo legato a quel mondo (del ciclismo) che gli aveva fatto girare il mondo (delle corse): “Da allenatore, da appassionato, da vecchio innamorato”. Per farci capire: “Trovai lavoro ad Autogrill. Ci sono rimasto 25 anni, infine da direttore. Un giorno ero a Milano. Telefonai a Fiorenzo Magni, così, per rispetto. Dove sei?, mi domandò. Alla Galleria Vittorio Emanuele, gli risposi. Venne a trovarmi”.
Al ciclismo Marcelli deve la vita: “Eravamo in Messico. Feci il bagno con Pietro Di Caterina. Non sapevo nuotare. Fummo salvati da Flavio Martini e Benito Pigato”. Il ciclismo e la vita sono sport di squadra.