Si muore da scalatori. Prosciugati, sfiniti e solitari. L’arrivo finale è una rampa. Comunque, dovunque, per chiunque. E Imerio Massignan è morto, nella notte tra venerdì e sabato, da scalatore. Chi, meglio di lui.
Aveva un perfetto cognome da scalatore, di quelli che finiscono su un gran premio della montagna, senza annacquarsi in una discesa. Aveva anche un originale nome da scalatore, che potrebbe richiamare quello di un dio greco e significare desiderio ardente. Aveva l’ideale fisico da scalatore, magro, asciutto, tutto nervi e volontà, tanto da guadagnarsi il soprannome di Gambasecca, anche per via di una gamba non in linea con l’altra. Aveva un fatale certificato di nascita: 2 gennaio (la data della morte di Fausto Coppi) del 1937 (23 anni prima). Aveva un profetico luogo di nascita, Valmarana, frazione di Altavilla Vicentina, ai piedi di salite di cui stabiliva, uscita dopo uscita, ufficiosi e insuperabili record. Aveva perfino – e lo avrebbe scoperto strada facendo – un destino da scalatore, che deve lottare contro tutti e soprattutto contro sé stesso, che deve allearsi con la propria solitudine, che deve rassegnarsi ad amare quelle pendenze che allettano la sua virtù ma che minacciano la sua salute, che deve confidare in tornanti e drittoni quando tirano su ma che deve sfidarli quando precipitano giù. I veri scalatori – lui, Gaul, Bahamontes, i colombiani… -, proprio per la loro natura caprina, non potevano essere spericolati discesisti.
Massignan era un uomo verticale. Non solo per la vocazione a forcelle e valichi, ma anche per la resistenza a scorciatoie e inganni. C’è una foto in bianco e nero che vale un Raffaello a colori. Imerio è ritratto sul Muro di Sormano. Da dietro. Storto, straziato, stremato. In piedi sui pedali. Ma ostinatamente sui pedali, mentre tutti gli altri (possiamo contare su credibilissime testimonianze) avanzavano spingendo la bici o spinti dagli spettatori. Eh no, non vale. Ma la pietà, prima degli spettatori, poi dei giudici e degli organizzatori, aveva concesso la grazia agli altri corridori. E inevitabilmente falsato l’ordine d’arrivo e rovesciato la storia. A cominciare dalla sua. Dodici anni da professionista e due sole vittorie (la prima al Tour de France, la seconda al Giro di Catalogna), però anche due vittorie nella classifica della montagna al Tour de France, e poi un rosario di piazzamenti, come il secondo posto nella classifica finale del Giro d’Italia del 1962. La più letteraria delle sue imprese contempla un altro secondo posto, la tappa del Gavia al Giro del 1960, sul Gavia – la prima volta assoluta del ciclismo, più o meno come camminare sulla Luna – era svettato primo, però, purtroppo per lui era prevista la discesa fino a Bormio, e però, purtroppo per lui era imprevista la foratura, tre volte!, di una gomma. Tagliò il traguardo, in lacrime, dietro Gaul. Vincitore morale, gli dicevamo per dargli morale. Scuoteva la testa e ruminava improperi.
Massignan lo si amava. Con tutta l’anima e con tutte le forze. Con l’impotenza di riscrivere la storia e con il pentimento di aver tifato per Nencini o Carlesi, Battistini o Adorni, Ronchini o Pambianco, o per quello sciagurato di Venturelli. Con la nostalgia per una faccia così espressiva e con la gratitudine per una storia così sghemba. Piatto di risotto e bicchiere di vino, Massignan incantava con i suoi racconti. Tre, strepitosi, sono irrinunciabili, anche adesso. Quella volta che compilò una nota-spese: “Un tanto per il treno, perché noi viaggiavamo sempre in treno; un tanto per ristoranti e trattorie; e alla fine aggiunsi ‘poiché l’uomo non è fatto di legno, diecimila lire’. Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, sgranò gli occhi, aggrottò le ciglia, estrasse la pipa dalla bocca, mi squadrò, si rimise la pipa in bocca, e alla fine firmò. Perché l’uomo, e a maggior ragione il corridore, non è fatto di legno”. Quella volta che vinse la tappa pirenaica a Superbagnères: “Ma non sembrava neanche di essere al traguardo, perché c’era un vento così forte che aveva strappato e portato via lo striscione dell’arrivo”. E quella volta che gli contestarono la mancata vita da atleta: “E’ vero. A Nencini, che voleva fumare e bere anche quando indossava la maglia gialla al Tour, accendevo le sigarette e allungavo fischi di Chianti. Con il vino neanch’io mi tiravo indietro. Ma cosa volete che fosse mezzo litro di vino quando in un giorno mandavi giù dieci litri di acqua?”.
Aveva 87 anni, Massignan, morto da scalatore. Da qualche ora siamo tutti irrimediabilmente orfani di un gigante. E il mondo – affacciatevi pure - si è appiattito.