L’estate significava il Giro d’Italia: “Quando partiva quello ufficiale, noi facevano iniziare quello in parallelo, per ciclisti i tappi delle bottiglie di Coca-Cola o di chinotto”. Ciclotappo. Diego Abatantuono pedalava così.
Diego e il Giro: se ne parla in una sua vecchia autobiografia, “Eccezzziunale veramente” (Zelig, 224 pagine, 9500 lire, è del 1997), estratta ancora viva in un bookcrossing. Il libro è divertente, coinvolgente, curioso, pieno di personaggi, storie, episodi, da Jannacci a Rivera, da Al Bano a Romina, da Pupi Avati a Gabriele Salvatores, dalla Demente al Bistecca, dal calcio al ciclismo, dal cabaret al cinema.
Eravamo rimasti ai tappi: “Si andava a prenderli fuori dal bar. Li buttavano via assieme ai fondi di caffè. In un prato lì vicino perché dicevano che il fondo del caffè concima, fa bene al terreno. Noi ci buttavamo in mezzo alla ‘ruera’ con questo profumo di caffè fortissimo. Mettevamo dentro le mani e tiravamo fuori i tappi, quelli più sani. Poi con il martello o dei sassi li appiattivamo là dove per aprirli si erano incurvati, li lavoravamo sfregandoli contro il cemento per farli diventare lisci, li riempivamo di cera per appesantirli e non farli sbandare”.
A questo punto Abatantuono e gli altri concorrenti dovevano affrontare un altro problema: “Si andava poi dal cartolaio le biglie per sabbia, quelle di plastica leggera vuote dentro, con la fotografia del ciclista. Le si apriva, si toglieva la foto e la si appiccicava sul nostro tollino che d’incanto diventava Baldini, Defilippis, Massignan… I più poveri ritagliavano le faccine dai giornali, quindi, già discriminati tra gli sfigati, avevano i corridori in bianco e nero”.
Pronti-via: “Partiva così il Giro d’Italia del Giambellino”, il quartiere di Milano dove abitava Abatantuono, “ogni giorno era una tappa, come nel Giro ufficiale. Si davano i tiri di ritardo, c’era la maglia rosa, c’erano pezzi pianeggianti e tratti in cui usciva dalla strada asfaltata e si andava in mezzo allo sterrato”, le strade bianche!, “c’era il rettilineo finale per il volatone”.
Tutto doveva essere la perfetta riproduzione del mondo adulto: “Su questo non ci pioveva – scrive Diego – e infatti non ci pioveva proprio: ricordo le mie estati al Giambellino come delle estati caldissime, afose”. Però: “Spesso mentre giocavamo sull’asfalto torrido si sentiva un suono di trombetta. Era il gelataio: un ometto minuto, magrino, che arrivava col classico triciclo degli ambulanti. Nei primi tempi pedalando, poi si emancipò” – abbasso l’emancipazione – “e al posto della bicicletta ci mise un motorino”.