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DAMIANI. «VIVIANI, UN ESEMPIO PER LA COFIDIS»
di Giulia De Maio | 29/01/2020 | 08:00

Sull’ultimo numero di tut­to­BI­CI del 2019 Elia Viviani ci ha raccontato l’emozione di mettersi “in proprio” per la prima volta; ora sul pri­mo numero del nuovo anno conosciamo come il Team Cofidis si è modellato a sua immagine e somiglianza. Nel 2020 non mancheranno di certo gli stimoli al campione europeo e alla formazione francese che lo ha scelto come uomo simbolo per il salto nel World Tour. Roberto Damiani, dalla fine del 2017 direttore sportivo della squadra guidata da Cédric Vasseur, ci svela il volto della nuova Cofidis.

Dal 1999 di campioni ne ha diretti tanti avendo guidato l’ammiraglia di grandi équipe mondiali come Mapei, Fassa Bortolo, Liquigas-Bianchi, Lotto, Ome­ga-Pharma e Lampre, lavorando con campioni quali Cancellara, Evans, Gilbert, McEwan e Petacchi. Quest’anno dirigerà un fuoriclasse che fin dal primo ritiro lo ha impressionato. Scopriamo perché.

Cosa comporta il salto nel World Tour?
«Per certi aspetti cambia tanto, per altri davvero poco. Entrare a far parte a pieno titolo della massima serie non è una cosa semplice, soprattutto se come noi vuoi farlo da protagonista e non tanto per fregiarti di un semplice titolo in più, d’altro canto negli ultimi due anni già il 60-70 % del nostro calendario era World Tour. Al pari della crescita a livello strutturale, ora dovremo essere bravi a far innalzare le prestazioni per ripagare l’investimento di un’azienda fuori dal comune, che crede davvero e da tanti anni nel mondo delle due ruote. Ognuno di noi dovrà tirare fuori il meglio di sé, anzi di più».

Perché Cofidis ha scelto di fare questo passo in avanti?
«Il gruppo è da sempre vicino al mondo dello sport e delle competizioni, il ciclismo in particolare rappresenta pienamente i va­lori di questa azienda specializzata nel credito al consumo. Il nostro è uno sport vicino alla gente, nel quale è davvero cruciale mettere in pista determinazione e forza di volontà per raggiungere gli obiettivi. È stata una scelta manageriale, strategica, che nasce da lontano. La squadra Cofidis ha visto la luce nel 1996 ed è speciale perché rappresenta il primo caso nel mondo del ciclismo attuale in cui proprietario e sponsor coincidono (il secondo è quello della EF, ndr). Il team ciclistico fa par­te dell’azienda sia moralmente che fisicamente, è un ramo dell’azienda stessa».

Essendo l’investimento maggiore, dovranno aumentare anche i risultati.
«Dirigenza, personale e atleti sono con­sapevoli di quanto sia importante sfruttare al meglio questa occasione. Abbiamo la grande chance di avere uno sponsor che crede nel ciclismo, non possiamo deluderlo. Dobbiamo rispondere con entusiasmo, correre ogni gara per vincerla. Nella storia i ciclisti in ma­glia Cofidis si sono aggiudicati nu­merose vittorie di tappa al Tour de France e alla Vuelta a España, oltre a diverse classiche come la Gand-We­velgem 1997 con Philippe Gaumont e la Liegi-Bastogne-Liegi 1999 con Frank Vandenbroucke. È una realtà con una storia importante e un futuro molto promettente. Sono certo che insieme faremo grandi cose e ci toglieremo di­verse soddisfazioni».

Nell’anno olimpico avete puntato su Elia Viviani.
«Con grande piacere del sottoscritto. Sono orgogliosamente italiano quindi sono fiero che una squadra francese scelga un capitano del mio Paese. Sono convinto che Elia avrà l’occasione di vincere e portare il suo contributo alla causa. Non parlo solo in termini di ri­sultati, mi riferisco alla sua professionalità e alla sua passione, che risultano davvero coinvolgenti. Raramente ho visto un corridore provare tanto amore per il proprio lavoro».

Cosa si aspetta dagli altri italiani ingaggiati?
«Attilio Viviani (fratello minore di Elia, ndr) non passa professionista con noi solo per il cognome. L’anno scorso lo abbiamo testato come stagista e ha superato la prova alla grande visto che ha addirittura vinto la Johan Museeuw Classic. Non sarà la “dama di compagnia” di nessuno, si è guadagnato il contratto sulla strada perché è un atleta valido. Fabio Sabatini è l’uomo che Elia ha chiesto esplicitamente perchè vanta una grande esperienza accumulata al servizio di fior fior di velocisti e si fida di lui come ultimo uomo. Lo vedo molto coinvolto in questa responsabilità datagli da Elia. Simone Consonni ha grandissime potenzialità, non solo in supporto di Elia. Alla Milano-San­remo, come in altre grandi corse, saremo focalizzati su un solo corridore, come è giusto che sia, ma se sarà in condizione potrà anche ricercarsi le sue opportunità».

Cos’altro c’è di italiano nella nuova Co­fidis?
«La bici è una macchina italiana. De Rosa ci ha fornito dei veri e propri gioielli con componentistica made in Italy grazie a partner del calibro di FSA, Fulcrum, Campagnolo e Selle Italia. Per gli integratori saremo riforniti da Named Sport, Eme Srl ci fornirà gli apparecchi medicali, come quello per la tecar terapia, Nalini ci vestirà in corsa ed Errea giù dalla bici. Vasseur ha una grande apertura mentale e cerca di prendere il meglio da ogni nazione, a livello di materiali l’Italia è ancora la prima della classe. Anche con i miei colleghi cerchiamo di lavorare insieme e sfruttare a pieno le qualità di ognuno, rispettando gli stili differenti che ci contraddistinguono».

28 corridori, 28 anni di età media, 10 nuove reclute, 8 nazionalità e tante ambizioni per la prossima stagione.
«Gli obiettivi che ci siamo fissati sono legati alla qualità dei corridori che abbiamo. Senza entrare nei dettagli, è chiaro che non vogliamo es­sere una squadra “materasso” ma puntiamo ad essere protagonisti ad ogni corsa. Trattandosi di una formazione francese, l’ambizione principale è tornare a vincere al Tour de France».

Gli uomini di riferimento?
«Detto degli italiani, ci aspettiamo mol­to da Christophe Laporte, che nel 2019 ha alzato le braccia al cielo ben nove volte. Correndo con Elia, crescerà ulteriormente. Il nostro imperativo: è uno per tutti, tutti per uno. A volte do­vrà sacrificarsi per Elia, altre avrà la squadra al suo servizio. In entrambi i ca­si imparerà e così potrà compiere un salto di qualità. Jesus Herrada si sta trasformando sempre più da ultimo uomo di Alejandro Valverde ad atleta vincente in prima persona, mi immagino continuerà questo percorso che gli sta regalando tante soddisfazioni. Guil­laume Martin negli ultimi due anni ha chiuso nei primi 15 al Tour, alla Gran­de Boucle si presenterà insieme al re­sto del team con molta serenità ma tan­ta determinazione. Non ci vedrete mai al via di una corsa tanto per partire».

La sua gara dei sogni?
«Beh, non ho dubbi. Da sempre sono innamorato perso della Milano-San­re­mo. Sarà perché mi manca, non l’ho mai vinta, ma non solo. Per me è come una bottiglia di champagne. Finché è chiusa può sembrarti un vino normalissimo, quando la apri capisci che è speciale. È fatta di attimi, ha un finale adrenalinico come nessun’altra, è la mia preferita. Me la prendo quando ne parlano male, chi ne critica il percorso non la conosce, è perfetta così com’è, con la sua storia e il fascino che non cambierà mai».

In ammiraglia da una vita, quali i mo­menti da ricordare?
«Quando ho iniziato avevo ancora i capelli (ride, ndr). Mi sono buttato nel mondo del ciclismo a 13 anni, ho appeso la bici al chiodo nel 1984 e da allora ho iniziato la mia avventura in ammiraglia, partendo dalle categorie giovanili. Nel 1999 ho concretizzato il mio sogno più ambizioso: unirmi ad una équipe di professionisti. Questo sarà il mio trentaseiesimo anno da di­rettore. Guardandomi indietro mi vengono in mente tante vittorie ma non so­lo, sono innumerevoli gli episodi che ho vissuto con corridori eccezionali. Uno che porto nel cuore, come una cicatrice, è la crisi di Cadel Evans al Giro d’Italia 2002. Ricordo con il sorriso i Lombardia conquistati con Gil­bert, ma anche il debutto di Ivan Basso alla Riso Scotti - Vinavil e tante esperienze vissute con i dilettanti».

Che energia le dà questo nuovo progetto?
«Enorme. Dopo gli anni in Lampre ho vissuto tre piacevoli stagioni in Ame­rica e due in squadre Continental, che mi sono servite per capire che non rientrerò mai più in Italia. Non voglio fare polemiche, probabilmente non sono fatto per il ciclismo di casa no­stra. Ringrazio Vasseur per la fiducia che ha riposto in me, sono orgoglioso di far parte di questo bel progetto».

Mentre i suoi corridori si riposavano, lei ha corso quest’inverno.
«Ogni tanto faccio lo sbarbatello (sorride, ndr). Per i 60 anni mio nipote mi ha regalato il pettorale per la Maratona di Valencia. Mi piace darmi obiettivi da raggiungere, con poco allenamento nelle gambe la maratona è una sfida so­prattutto mentale che, acido lattico a parte, non fa male anche a uno che “non molla mai” come me».

da tuttoBICI di gennaio

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