Nel giorno in cui si commemorano i defunti, riteniamo doveroso accendere i riflettori su uno dei tanti, troppi, incidenti che quest'anno hanno causato la morte di un giovane ciclista. Marco Cavorso, rappresentante per la sicurezza dell'Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani (ACCPI), e prima di tutto papà di Tommaso, ucciso a 13 anni da un'auto nel 2010 mentre si stava allenando, nei giorni scorsi ha pubblicato un post sulla sua pagina facebook nel quale chiede giustizia per Giovanni Iannelli, per il quale è stata fatale la caduta in volata dell’87° Circuito Molinese a Molino dei Torti.
È inaccettabile che nel referto del collegio di giuria al termine della gara in Provincia di Alessandria sia stato scritto che nessun provvedimento tecnico/organizzativo/disciplinare sia stato preso e che la corsa sia stata omologata da parte del Comitato della FCI Piemonte senza battere ciglio, come ha spiegato bene Antonio Mannori ieri su La Nazione, per questo Cavorso chiede che le autorità competenti intervengano per fare chiarezza su quanto davvero accaduto e per garantire la sicurezza di tutti i ciclisti, a partire dai più giovani.
Giovanni era del 1996 come Tommy,
ciclista come Tommy, stesse gare in squadre diverse,
educato e gioviale come Tommy,
come Tommy, Giovanni non poteva neanche immaginare, di poter morire facendo quello che amava,
pedalare.
Come Tommy, Giovanni sapeva che il mondo degli adulti sa fare male, sa voltarsi dall’altra parte, sa essere forte con chi è debole, sa essere ingiusto.
Ecco l’odio per le ingiustizie, di qualsiasi natura fossero, l’unico odio che Tommy e Giovanni hanno sempre provato.
Carlo ora è un padre come me, come troppi altri,
solo.
I fatti umani, e non il destino, ci hanno malvagiamente unito, non l’avrei mai pensato, mai voluto.
Un anno fa Carlo ed io, insieme anche allora, avevamo denunciato un seminatore di odio.
Un uomo, se così si può definire, che riferendosi all’investimento, il pestaggio e l’abbandono del corpo esanime a terra di un ciclista colombiano che pedalava nelle strade toscane, azioni vigliacche e fuori di ogni legge scritta e pensata, da parte di un automobilista incivile e violento, aveva sentenziato nei social network, veicolo spesso di violenza verbale peggiore di quella fisica, “colpirne 1 per educarne 100”.
Lo denunciammo per istigazione a delinquere, senza tanto clamore.
Perché, come diceva Bartali, le cose si fanno e non si dicono.
Per creare un precedente di legge, che fermasse la deriva mortale che regola i rapporti tra gli utenti diversi della strada, quelli forti e quelli deboli.
Lo avevamo fatto insieme anche se eravamo padri profondamente diversi, Carlo felice con il proprio figlio che pedalava, Giovanni, io in lotta per l’amore di un figlio che non pedalava più, Tommy, portato via dalla stupida violenza di un adulto.
Così distanti e così uniti nello stesso amore per i nostri figli e per i loro compagni.
Ora siamo così uguali, lo stesso percorso davanti a noi, dietro a noi.
In questi anni ho conosciuto tanti padri come Carlo, come me, siamo tutti fratelli e tra fratelli ci si aiuta, senza nessun limite.
Così come non ho accettato supinamente che un uomo in sorpasso contromano potesse uccidere un ragazzo, mio figlio, senza nessuna pena, nessun pentimento, nessuna scusa.
Così come non ho accettato che il mondo attorno a noi girasse pagina, come se non fosse successo nulla, o meglio che ciò che era accaduto fosse normale e non facesse nulla per cambiare, per migliorare.
Così come non ho accettato questo per Tommy, non posso accettare quello che è successo a Giovanni.
Sì perché Giovanni non è morto perché è stato sfortunato, per destino, o peggio per causa sua o di qualche altro ragazzo che aveva fatto con lui quella maledetta ultima volata a Molino dei Torti.
No, Giovanni, non doveva morire, se solo gli adulti che dovevano tutelarlo avessero fatto quello che potevano fare, quello che dovevano fare.
Giovanni non doveva sbattere su quella colonna, noi tutti lo sappiamo.
E non sono state disattese solo le regole che gli organi federali ciclistici impongono a chi controlla, dirige e organizza una gara ciclistica, sono state calpestate le norme morali e civili che dovrebbero regolare la convivenza della nostra società.
Quelle del buon padre di famiglia, quelle dell’adulto che si deve impegnare a tutelare la vita di un ragazzo.
Abbiamo risparmiato sulle transenne, sulle protezioni e i soldi forse risparmiati, li abbiamo spesi con la vita di un ragazzo.
Ho già visto il report della giuria, “nessun provvedimento tecnico/organizzativo/disciplinare".
La frettolosa omologazione della gara da parte del comitato, senza nota alcuna, senza alcun provvedimento.
Ho già sentito un’aria pesante attorno a noi, padri soli, figli senza futuro.
Già ho sentito le solite frasi, è’ sempre stato fatto così, è stata una fatalità, un fatto di gara.
Cazzate, l’abbiamo ucciso noi.
In quella bara bianca ce l’abbiamo messo noi, anche solo voltando la nostra bella faccia dall’altra parte.
Giovanni oggi doveva essere qui con noi o meglio con i suoi coetanei a farsi una pizza e due risate.
Ma non è così, e le scuse non bastano.
Chi deve indagare, verificare gli errori e le omissioni, perseguire, sportivamente, i responsabili diretti … lo faccia, senza ulteriori indugi.
Chi era presente all’ultimo atto di Giovanni o sa come sono andate le cose, collabori con la giustizia italiana a fare il proprio corso, di persona.
Non domani, oggi, perché oggi è già tardi.
Per rispetto di Giovanni e Tommy, per mio fratello Carlo, farò tutto quello che posso perché la verità emerga in maniera intangibile, perché la vita dei ragazzi che pedalano, sia il valore assoluto per chi, persona o istituzione, ne abbia la diretta responsabilità, io ci sarò.
Con Carlo, senza arretramenti, senza paura.
Perché ora Carlo saprà anche lui affrontare la sua giusta battaglia con la calma, la dignità e la fermezza che i nostri ragazzi, Giovanni e Tommy, meritano pur sapendo noi, di non avere più nulla da perdere.
Senza compromessi in memoria dei nostri figli per la vita dei loro compagni.
Noi chiediamo giustizia per Giovanni.
Marco