Nessun
dorma... C'era una volta la sigla di un Giro d'Italia che cominciava
così, con la Turandot di Puccini. Ma era un'altra storia. Questa volta
il Vincerò smuove altre note. Facce tese, facce di triatleti che
guardano il mare come sempre. Come capita ogni volta che si aspetta che
la sirena del via ti tolga le ansie. Ma questa volta è tutto diverso.
Perché i piedi nudi si appoggiano un po' insicuri sulle pietre fredde
delle Fondamenta di san Giobbe, proprio davanti all''Unversità di Ca'
Foscari.
C'è Venezia che si è svegliata all'alba per la curiosità di
veder nuotare nei canali 800 folli con le mute che si preparano a
sfidarsi nella prima edizione del Challenge full distance. Forse scritto
in inglese fa meno paura ma resta una sfida tosta di 3 chilometri e
mezzo da nuotare in mare, 180 chilometri da pedalare in bici e una
maratona da correre alla fine. Senza tregua. Senza pensarci. Senza
senso... forse.
C'e una Venezia che non ci crede, forse non capisce. Che
però si ferma a guardare, fotografa e applaude. Ci si tuffa alle sei e
mezzo del mattino ma sarà una giornata lunga, lunghissima, poco più di
otto ore per i più forti, quelli che si giocheranno la vittoria. La
sveglia è alle tre. Ci si sveglia quando un pezzo di mondo va a
dormire ma capita quando si va avanti con l’età. Si preferisce alzarsi
presto che non fare i bagordi. O farli al contrario. Perché per molti,
per la maggior parte uno che si sveglia alle tre per fare colazione
pensando che tre ore dopo deve tuffarsi in mare per nuotare quattro
chilometri e poi pedalarne 180 e poi correre una maratona fa i bagordi
al contrario.
“Non siete tutti a posto…” . E fa anche piacere che ce lo
dicano. Dà un senso a ciò che si fa , ci fa sentire speciali. C’è
sempre un sottile compiacimento quando la gente normale ti dà del matto
con un pizzico d’invidia. Già perchè poi nel buio a piedi attraversi il
Parco di San Giuliano che Venezia è la in fondo ma neppure si vede, vai
a prendere un bus che ti porterà al traghetto che ti porterà fino alle
Fondamenta di San Giobbe dove ci si tuffa. Il primo Challenge di Venezia
può cominciare. Da lì però devi far da solo. Guardi l’acqua livida che
brilla sotto i fanali di una lancia e pensi che sei ancora in tempo a
ripensarci. Non è mai da vigliacchi avere paura. Anzi. Però forse ormai è
tardi. Tiri su la muta, ti cali la cuffia sulle note del Vincerò,
schiacci gli occhialini sul viso e aspetti che sia la sirena a dirti che
è arrivato il momento di darsi da fare. Fine dei pensieri. E’ un attimo
cancellare dubbi e paure.
L’ansia resta ancora il tempo di una decina
di bracciate, quando il rumore del respiro affannoso si amplifica
nell’acqua di un mare in cui nuoterebbero in pochi. Avanti regolare
finchè fiato e cuore cominciano a marciare insieme. Anche l’acqua, metro
dopo metro, bracciata dopo bracciata sembra diventare più chiara e più
leggera. San Giuliano è la in fondo, cerchi di scorgerla tra gli
spruzzi di chi sta davanti ma è ancora presto per voltar pagina. Però si
arriva. Basta avere pazienza, basta crederci. E’ il bello del correre
in retrovia. E’ il bello di non dover fare i conti con un cronometro
perché dodici ore per arrivare al traguardo, tredici ma anche
quattordici sono esattamente la stessa cosa. Chi fa sul serio dice che
un full distance sopra le dodici ore non vale, non si discute nemmeno. E
forse è anche così. Però c’è anche chi se ne frega e va avanti lo
stesso.
Stessa determinazione, stessi gesti, stessa fatica. Che in bici
non finisce davvero mai. Centoottanta chilometri sono un viaggio. E
come andare da Milano a Bologna mettendosi in autostrada, come andare al
mare in Liguria ma neanche troppo vicino. Ti metti lì, cerchi di stare
il più comodo possibile, cerchi di far girare le gambe sfidando quella
legge della fisica che ti spiega che c’è un punto in cui la spinta e la
scorrevolezza delle ruote trovano un compromesso accettabile. Un punto
di non fatica che è chiaramente un’illusione ma mai come in sei, sette
ore di bici le illusioni servono a non pensare. Guardi l’asfalto che
scorre lì a pochi centimetri dai tuoi piedi e la sensazione di velocità è
piacevole. Ti muovi. Continui a muoverti anche e il ricordo dell’acqua
nera in cui stamattina ti sei tuffato comincia a svanire. Ci siamo. Ci
siamo quasi perchè è chiaro che non è finita. Sembra non finire mai e
che non possa finire mai quando cominci a correre. Non è vero che un
full distance è solo bici. Lo dicono in tanti, lo dicono quasi tutti. Un
full distance è anche una maratona alla fine. Alla fine di tutto quanto
già sembra un’enormità.
E che sia tutto anche lì, dentro quei
quarantadue chilometri che passano lenti, lentissimi, metro dopo metro
come i granellini di sabbia in una clessidra, lo capisci un metro dopo
aver agganciato la bici al tubo della zona cambio. Finisce un tormento e
ne comincia un altro. Che ti aspettavi ma forse non così. Allora fai
due conti. Dividi i giri, frazioni i chilometri, calcoli la distanza da
un rifornimento all’altro. Corri, ti fermi, riparti e corri ancora.
Corri cercando non guardare le facce degli altri che incontri, cercando
di dimenticarti le tante maratone che hai corso prima, di non pensare a
nulla. Corri e fai ciò che devi fare. Un passo dopo l’altro, fino in
fondo, fino alla fine. Che arriva. Arriva ed è il finale del romanzo che
avevi già scritto. Un sacco di volte. Un finale che in un certo senso,
come scrive Haruki Murakami, ti avvicina all’essenza delle cose: “Una
volta usciti dalla prima giovinezza, nella vita è necessario stabilire
delle priorità. Una sorta di graduatoria che permetta di distribuire al
meglio tempo ed energia. Se entro una certa età non si definisce in
maniera chiara questa scala di valori, l’esistenza finisce col perdere
il suo punto focale e di conseguenza anche le sfumature….”
Antonio Ruzzo