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L'ORA DEL PASTO. ANGELO BASSINI, IL GREGARIO INNAMORATO (DELLA BICI)
di Marco Pastonesi | 18/12/2024 | 08:12

Parigi-Tours del 1970. Chilometri 286, più i chilometri dalla partenza ufficiosa a quella ufficiale, totale chilometri – più o meno – 300. Dopo 200, sfinito, Angelo Bassini ne ha abbastanza. Cede, molla, rallenta. Cerca il camion-scopa e lo trova. Ma è pieno, strapieno, tutto esaurito. Così Bassini è costretto a restare in sella. Arriva al traguardo, neanche male, trentacinquesimo, subito dietro Raymond Poulidor, a più di 22 minuti dal vincitore – a sorpresa – il tedesco Jurgen Tschan. Dal traguardo va al campo sportivo, è là che si trovano spogliatoi e docce. Mezz’ora più tardi vanno a cercarlo quelli della sua squadra. Allarmati. Non lo vedevano più. “Ero così stanco – ricorda Bassini - che mi ero addormentato sotto l’acqua”.

Anzulin, lo chiamavano. Romagnolo di Predappio, del 1946, papà contadino, mamma tuttofare, lui quinto di sei figli: “Tre maschi e tre sorelle, uno e una, uno e una, uno (io) e una”. Quinta elementare poi l’avviamento: “Come le medie di adesso”. Intanto la bici: “Ce l’avevo nel sangue”. Tant’è che: “A 10 anni, su una bici da donna, giravo, giravo, giravo, mi perdevo, non tornavo, venivano a cercarmi, preoccupati”. La prima bici da corsa a 15 anni: “Papà era contrario, uno zio lo convinse. Andammo a Faenza da Vito Ortelli. Tornammo a casa con una Ortelli costata 74mila lire”. Subito la prima squadra: “Si chiamava Taverna Verde, era un circolo bar balera…”. Poco dopo la prima corsa: “Nel Forlivese, da esordiente”. Molto dopo la prima vittoria: “A Meldola, si faceva anche la Rocca delle Caminate, volata a due, e quella volta la vinsi”.

Vincere, non sarebbe successo spesso: “La volata non era il mio forte”. Il suo forte era il recupero: “Gli altri calavano, io meno, e menavo”. Da dilettante il successo più bello: “Giro dell’Abruzzo del 1969, quattro tappe, vinsi la quarta tappa e conquistai anche la classifica generale”. Correva per la Germanvox di Spilimberto: “La succursale, l’anticamera della Germanvox-Wega”. Tant’è che l’anno successivo proprio lì passò al professionismo: “La Germanvox-Wega aveva due capitani, il danese Ole Ritter per le corse a tappe, il belga Guido Reybrouck per quelle in linea. Data la mia attitudine alla salita, dovevo stare vicino a Ritter”. I casi erano due: “O lo spingevo io, o si attaccava lui”.

Poche le giornate di libertà: “Non erano previste, il gregario doveva fare il gregario”. Salvo rare eccezioni: “Giro delle Tre Provincie, a Camucia, nel 1971. Ero passato alla Scic. Fuga a due, l’altro era Arnaldo Caverzasi. Sapevo che era più veloce, sapevo che allo sprint non avrei avuto speranze, così partii lungo, ma lui mi saltò”. Poi piazzamenti, tanti, ma vittorie, zero. Però: “Quattro Giri d’Italia, tutti finiti, il primo nel 1970, nono in un tappone dolomitico e ventiseiesimo nella generale”. C’era da imparare: “Il gregario più influente era Carlo Chiappano: ci dirigeva. Il gregario più vincente era Roberto Poggiali: primo in un Giro di Svizzera. Erano finiti i tempi degli assalti ai bar e alle fontane, ogni squadra aveva due ammiraglie, una stava dietro al capitano, l’altra si occupava dei rifornimenti, ma nelle tappe al Sud, dove c’era più da sudare e meno da bere, ci fermavamo ancora nei bar e nelle fontane”.

Quattro anni da professionista, un solo rammarico: “Non aver mai fatto il Tour de France”. Ma le classiche, quelle sì: “Dalla Gand-Wevelgem al Giro delle Fiandre. Anche la Parigi-Roubaix. Più avventuroso il viaggio della corsa. In quattro su una Fiat 124: il meccanico al volante, poi io, Giancarlo Toschi e Dino Capitelli, tutti e tre della Germanvox-Wega, era il 1970. Si partì il venerdì da Predappio, si arrivò a Parigi di notte, il sabato la punzonatura, la domenica la gara, poi di nuovo in macchina, si partì da Roubaix la domenica sera e si arrivò a casa il lunedì alle tre di pomeriggio, mi misi a letto e ci rimasi tre giorni”.

Che mangiare: “Nelle tasche si mettevano panini alla marmellata, panini al prosciutto e le cotognatine”. Che bere: “Borracce d’acqua, al massimo di tè zuccherato”. Che ingaggi: “Non erano poi così male, prendevo quattro volte lo stipendio di un operaio, ma per 10 mesi l’anno, e a fine anno i premi venivano equamente divisi fra tutti, anche meccanici e massaggiatori”. Che cotte: “Le prendevo quando, per aiutare, mi dimenticavo di mangiare”. Che freddi: “Tirreno-Adriatico del 1973, tappa da Fiuggi a Pescasseroli, nevicava già la mattina, ma l’abbigliamento era quello che era, braghe corte, maglia di lana a maniche corte, il giubbottino era di nylon. Per riscaldarsi c’erano solo le pomate. Sulla salita di Forca d’Acero una bufera di ghiaccio. Corridori congelati, corsa fermata, militari intervenuti. Ricordo Ercole Gualazzini che si era tolto le scarpe e, piangendo, correva a piedi nudi nella neve”.

Bassini era alla festa per gli 80 anni di Renato Laghi: “Io, di anni, ne ho 78. E molto devo al ciclismo. Mi ha insegnato il rispetto e la gratitudine, essere corretto e responsabile, fare sacrifici e tenere duro”. E’ stato un duro, Anzulin, nella vita: “Finito di correre, ho cominciato a vivere. Sono emigrato a lavorare a Milano, commesso in una banca, e intanto ho ricominciato a studiare, e alle serali mi sono diplomato ragioniere”. Un voto non da gregario, ma da capitano: “Cinquantaquattro sessantesimi”.

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