C’è una strana atmosfera a Grosseto, è il giorno prima dell’inizio del Giro Rosa, la più importante gara a tappe del panorama ciclistico femminile. C’è il solito via vai all’ufficio licenze per ritirare gli accrediti di stampa e gruppi sportivi, piccole operazioni di un mondo invisibile agli occhi del pubblico. C’è però uno strato ancora più profondo, quello costituito da persone non menzionate dagli onori della cronaca, quelli che smontano e rimontano ogni giorno, gli autisti, i volontari, tutti coloro che il Giro lo vivono in modo molto particolare sulla loro pelle.
È l’ora di pranzo e a tavola mi trovo davanti ad un piatto di penne al sugo; di fianco a me tanti uomini che si salutano accompagnati dal fragoroso suono del “come stai?“.
“Ecco quelli che non fanno mai nulla, quelli che mangiano gratis“ urlano dei passanti fuori dall’osteria incuriositi dal grande fermento.
Eppure tra tutti quegli uomini al tavolo, di quelli che non fanno nulla proprio non c’è nessuno e non ci vuole un dottorato per capirlo, basta solo starli ad ascoltare. Se si trovano su quelle sedie e con quel pass al collo che sancisce l’appartenenza ad una macchina organizzativa è per un unico motivo: la passione. La maggior parte di loro sono uomini in pensione e che decidono di partire per 10 giorni mettendosi a disposizione, volontari è la parola maggiormente usata, appassionati, è quella che a mio avviso sarebbe da preferire. Ad interessarli non è il selfie con la vincitrice né tantomeno il vanto di esserci stato, quanto piuttosto l’orgoglio di fare parte di quell’enorme ingranaggio. È grazie alla loro solitaria fatica che il Giro Rosa procede, ha i suoi autisti che spostano invitati e giornalisti da una parte all’altra, gli operai che smontano e rimontano palchi e transenne, le moto staffette che indicano il percorso alla corsa. Non chiedono nulla in cambio soltanto di raccontare la loro storia.
Davanti a noi le pietanze sono ormai cambiate: la pasta è stata sostituita dalla carne che è sparita velocemente dai piatti. Le chiacchiere e le storie sono proseguite trasformandosi in una specie di leggenda. C’è chi racconta di aver trasportato l’assessore tal dei tali, chi il giornalista, chi di aver segnalato una salita all’organizzazione, o che racconta di aver semplicemente aperto alla corsa con la sua moto staffetta; non basterebbe una giornata per ascoltarle una ad una, ma c’è un elemento che le accumuna tutte quante: l’orgoglio e la soddisfazione con cui vengono raccontate.
Terminato il pasto poco per volta tutti gli uomini abbandonano il tavolo, con un sorriso stampato sul volto e la certezza di esserci ancora una volta. Parlottano tra di loro, al centro della discussione c’è il posto in cui pranzare durante e dopo la tappa, ancora insieme, per scambiarsi l’ennesima storia.
È ormai calata la sera su Grosseto e nella piazza centrale è appena andata in scena la presentazione delle squadre, tutto pronto nei minimi dettagli per il grande giorno. Accanto alle transenne, nel luogo più nascosto trovo quegli stessi uomini, i medesimi di pranzo, guardano ancora estasiati lo spettacolo appena terminato con gli occhi un po’ lucidi. Fino ad un mese fa il giro rosa non si doveva correre, l’ennesima vittima del coronavirus, ma con la tenacia gli organizzatori hanno rimesso insieme le 9 tappe, con tutta fretta e lo hanno salvato.
"Se oggi c’è tutto questo forse è anche un po’ merito nostro" sussurrano tra di loro. Devo dire che alla fine non hanno poi nemmeno tutti i torti.