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di Pier Augusto Stagi | 18/11/2018 | 07:00

Il capolavoro si sta compiendo, in tutto il suo fulgido splendore. Il nostro Titanic viaggia sereno con la sua orchestrina sonante e sognante contro il suo iceberg. Nel linguaggio iconografico ciclistico il Titanic è il nostro movimento, la montagna di ghiaccio è la riforma, con la categoria Continental che per molte formazioni Professional può rivelarsi un comodo quanto provvidenziale piano B da seguire, prima di andare però a sbattere.

Già dal prossimo anno qualche formazione under 23 in più, come la Colpack e la Beltrami Hopplà, farà il suo ingresso nella famiglia Continental, ma già adesso se ne intuiscono gli effetti e le conseguenze: aumento dei costi.

In linea di massima ci sono due modi di svolgere un’attività Continental, nient’altro che un team dilettantistico con la possibilità di correre qualche corsa di livello con i professionisti. C’è chi continuerà a svolgere la propria attività di under 23, con qualche piccolissima puntata in corse pro. Già quest’anno, è bene dirlo, molte formazioni Continental, oltre a pagarsi spese di viaggio e alberghi, hanno dovuto anche contribuire con il versamento di qualche soldo agli organizzatori. Insomma, si paga per correre ad ogni latitudine, altro che storie! Altre formazioni, come la Polartec di Basso e Contador per intenderci, svolgeranno invece per davvero un’attività formativa internazionale che costerà non meno di un milione di euro a stagione. La stragrande maggioranza dei nostri team probabilmente sceglierà la strada del contenimento dei costi (attorno ai 600 mila euro), con un’attività che però sarà pochissimo internazionale, molto under 23, con un’unica vera conseguenza: l’aumento dei costi.

Se poi dal 2020 prenderà forma e vita la riforma pensata dall’Uci, le nostre quattro formazioni Professional con ogni probabilità sceglieranno anche loro la strada del riposizionamento verso il basso (Continental, appunto), e l’affollamento sarà completo e totale. I costi lieviteranno, gli organizzatori si troveranno ad avere troppe richieste, e la selezione non si farà più in base agli organici, al prestigio e alle vittorie ottenute, ma in base a chi offrirà di più. Bene, no? 

MOZZI. Mi sono sentito esattamente come in quei giorni in cui piove e c’è il sole. Un misto di gioia e magone. Estasi e tormento. Pace e rimpianto. Mi sono sentito esattamente così, la sera del 23 ottobre scorso, quando sono entrato nel velodromo olimpico di Londra - il Velopark -, per assistere alla serata inaugurale della Sei Giorni, nella quale è tornata a pedalare in gruppo la maglia Molteni, una delle maglie più importanti della storia del nostro sport.

Perché la gioia? Perché sono volato indietro nel tempo, quando pedalavo con poca forza e tanta passione al Palasport di San Siro, dove la Sei giorni era evento sportivo e mondano, ma anche culturale. Palasport gremito, più di quindicimila spettatori ogni sera: uno spettacolo. Perché magone? Perché non abbiamo più nulla di tutto questo, noi che abbiamo insegnato al mondo. Non sappiamo neanche più cosa sia una Sei Giorni. E vedere a Londra tantissimi ragazzi seguire con passione campioni che a noi direbbero poco più di nulla, mi lascia ancor più l’amaro in bocca. Eravamo la centralità del mondo: i maestri, il movimento e la ruota. Eravamo tutto. Ora, forse, siamo i mozzi. Non quelli che compongono la ruota, e che danno stabilità e forza, ma quelli che vanno per mare: tanta fatica e acqua alla gola.

MAGIA MOLTENI. Mario Molteni si muove come un Harry Potter semplicemente un po’ più attempato. Ha gli occhi che luccicano, e il sorriso dolce di chi ha quasi pudore a manifestare tutta la sua gioia. Ha riportato il marchio Molteni in gruppo, alla Sei Giorni di Londra, vestendo i campioni del mondo Roger Kluge e Theo Reinhardt, oltre ai britannici Adam Blythe e Jon Dibben. In più Mario Molteni, che non sarà un maghetto, ma molto ci assomiglia, dal cilindro – che è poi il suo cuore - ha tirato fuori una Fondazione che avrà come compito quello di aiutare e assistere corridori indigenti. Dare una mano - non un vitalizio - a quei corridori che sono stati per mille e più ragioni sfortunati. L’idea è nobile e bellissima, e a tale riguardo invito gli amici Cristian Salvato e Gianni Bugno - presidente nazionale e mondiale delle rispettive associazioni di categoria - a mettersi in contatto con la famiglia Molteni. Sono una famiglia fantastica, riservata e dal cuore grande. È giusto che la grande famiglia del ciclismo li accolga come si conviene. La Fondazione Molteni è un valore aggiunto per tutti. È un discorso di maglie, di nonni e di padri, ma è soprattutto una storia di cuore. Per questo va considerata una magìa.

Editoriale da tuttoBICI di novembre

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