Crollò a soli 500 metri dall’arrivo. Quel giorno, l’8 giugno 1956, Giro d’Italia, tappa del Bondone, aveva sopportato 241 chilometri e altri 500 metri con quattro montagne, aveva resistito a pioggia, nebbia, freddo e infine neve, aveva indossato la maglia rosa anche quando la lana si era trasformata in uno straccio fradicio di sudore e acqua, ma anche di fatica e paura, il dorsale 43 nascosto da una mantellina troppo leggera per avere un senso, aveva stretto i denti fino a consumarli, aveva esaurito la fede e la speranza. E crollò fra le mani del direttore sportivo, Mario Giumanini, cui è sempre stata attribuita la colpa di non averlo spronato abbastanza. Come se la forza di volontà facesse difetto al suo corridore. Pasquale Fornara. Pasqualino. Lino. Lino lo svizzero. Lino l’elvetico.
Pasqualino era italianissimo, novarese di Borgomanero. E pochi giorni fa, il 29 marzo, ci è sfuggito il centenario della nascita. Grave, se si considera che Pasqualino era il quarto uomo del ciclismo italiano dietro a “quei due”, Coppi e Bartali, e al “terzo uomo”, anche “terzo incomodo”, Fiorenzo Magni. E se non era stimato uomo d’oro come i tre colleghi, è forse perché l’oro lo aveva trovato in Svizzera (quattro vittorie – record - ai tempi di Ferdi Kubler e Hugo Koblet, i 2K, anzi, il K2 del ciclismo) e non in Italia.
Tramandato come “il corridore che sorrideva sempre” (è anche il titolo del libro a lui dedicato da Fabio Marzaglia e da Luca Fornara, il figlio di Pasqualino), quel giorno sul volto congelato Lino l’elvetico conservava solo una smorfia di dolore. Giumanini, che seguiva la corsa sull’ammiraglia della Arbos (dalle iniziali dei cognomi dei fondatori, Silvio Araldi e Luigi Boselli), con la capote, infilato in una tuta da meccanico, alla radio parlò della “disumana durezza” della tappa. E Giulio Cattivelli, sulla “Libertà” del 9 giugno, in un pezzo intitolato “Ciclisti o fachiri”, scrisse di “un’assurda, bestiale gara di fachirismo dove di spirito sportivo era rimasto ben poco e dove la stessa dignità umana si annullava”.
Famiglia contadina, istruito da Domenico “o la va o la spacca” Piemontesi, poi 13 anni da professionista e 26 vittorie, corridore completo dunque forte soprattutto nelle corse a tappe, Pasqualino fu secondo a una Vuelta (nel 1958), terzo a un Giro (nel 1953), quarto a un Tour (nel 1955), tutti primi posti se solo ci fosse stata una quarta settimana. Non era un personaggio da rotocalco: in un film Luce sul vittorioso Giro di Svizzera 1952 la sua storia è definita “patetica”, “partendo dall’Italia piccolo e ignoto”, poi “Kubler lo ha ingaggiato come portatore di acqua, uno degli ultimi”, infine il successo. Con i soldi guadagnati e risparmiati in carriera (“Pasqualino risparmiatore di aranciate”, sul ‘Corriere dello Sport’), si comperò una casa, e anche un albergo. Morì a 65 anni, nel sonno, per infarto. L’annuncio fu dato al telefono da Adriana, la moglie: “Volevo comunicarle che Lino non c’è più – disse al giornalista Carlo Panizza -. Se può, lo faccia sapere anche ai suoi colleghi”. Da allora corridori ed estimatori lo avrebbero chiamato “il povero Fornara”. Ma Fornara era ricco. Era stato dimenticato il suo sorriso. A differenza di Coppi – “Fausto vinceva senza mai sorridere”, scriveva Orio Vergani sul ‘Corriere della Sera’, “quasi non credendo totalmente a se stesso” – Pasqualino aveva un sorriso radioso, illuminante, solare (nella foto, a sinistra, con Gastone Nencini e Rolly Marchi). Tranne quel giorno sul Bondone.