Era la sua amica: “Amavo perdermi a Belgrado andando in bici, il mio mezzo di trasporto principale, ragione per cui mia madre ancor oggi mi dice che ho i polpacci di Maradona”.
Era la sua salvezza: “Come nella primavera segnata dal bombardamento del ‘99. L’atmosfera carnevalesca che si era creata l’abbiamo vissuta grazie anche al trasporto su due ruote. Con Kristina uscivamo in mattinata, quando le sirene antiaereo tacevano, e rimanevamo in giro sino alle 19.30, ora in cui iniziava il coprifuoco”, “I nostri giri in bici ogni tanto venivano interrotti dalle sirene che informavano dell’entrata degli aerei nemici sul territorio jugoslavo”.
Era la sua vita: “Dopo le prime due settimane trascorse nello scantinato di casa mia, abbiamo deciso di uscire. La resilienza è una caratteristica strana dell’essere umano che rivela che siamo capaci di abituarci a tutto. Presto si sono riprodotti i meccanicismi di normalità e di routine, necessari anche per la sopravvivenza mentale. Andare in giro in bici faceva parte della mia normalità nella bolla di assurdità che ci circondava”.
La bici di Marina Lalovic. Quarant’anni, giornalista di Rainews24, in “La cicala di Belgrado” (Bottega Errante Edizioni, 152 pagine, 17 euro, prefazione di Giorgio Zanchini, postfazione di Gigi Riva) racconta la sua prima vita: nata quando Tito era morto da un anno, aveva nove anni quando la Jugoslavia cominciò a dividersi fra Slovenia, Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Kosovo, ne aveva undici quando cominciò l’assedio di Sarajevo e quindici quando finì, ne aveva quattordici quando si consumò il massacro di Srebrenica, ne aveva diciannove quando lasciò la Serbia per l’Italia dove studiare e cercare, inventarsi, costruirsi una nuova esistenza.
La bicicletta, in quei primi durissimi anni, era sua complice e testimone: per recarsi sulla Sava e sul Danubio, “sinonimi della vita notturna di Belgrado”, “La nostra generazione, cresciuta negli anni Novanta, andava ai fiumi per guidare la bicicletta o per ballare”, o per andare al “Centro sportivo 25 Maggio, nella parte più bassa del quartiere Dorcol, nato per celebrare la Festa della gioventù nell’ex Jugoslavia”, “Nell’ultimo tratto, in via Tadeusa Koscuska, si provava tutta la bellezza della bici: una discesa enorme sotto un cavalcavia che porta dritti al tratto più bello della passeggiata lungo il Danubio”, o per spingersi “nel quartiere Zemun: la Belgrado austroungarica per eccellenza. Era come uscire per un attimo fuori dai nostri confini lasciandoci alle spalle la guerra”.
Llovic sostiene che anche in una nuova storia, e in una nuova geografia, la bicicletta è sempre perfetta: “Perdersi a Belgrado è un’attività che si è evoluta nel tempo anche grazie all’ampliamento della costa lungo il Danubio”, “Oggi seguendo la sponda a lato del 25 Maggio si può arrivare a Ada Ciganlija, passando accanto a una delle tipiche cartoline della città composte dalla cattedrale di San Michele Arcangelo e dalla fortezza di Kalemegdan”.
“La cicala di Belgrado”, tra il diario e l’autobiografia, tra la guida e il saggio, è un viaggio – anche a pedali – non solo dentro l’autrice ma anche dentro di noi. Noi italiani. A distanza (ma neanche poi tanto) di sicurezza, fisica ed economica, forse distratti o forse ignari e ignoranti, fatalisti finché non ci si sbatte contro. O dentro. Come fra queste pagine.