Mercoledì 31 maggio 1950. Il Giro d’Italia viveva la sua settima tappa, la Locarno-Brescia, di 293 chilometri. La fuga era di quelle buone. A Luciano Maggini non sarebbe stato sufficiente vincere la volata finale su Giorgio Albani per conquistare la maglia rosa, che premiò, per un vantaggio esiguo ma infinito di 15 secondi, un altro toscano, Alfredo Martini, anche lui evaso dal gruppo. Quel giorno Romolo Intini era sulla strada del Giro, dalle parti di Como, soldato, una leva militare durata 11 mesi precisi, cominciata il 7 settembre 1949 e terminata il 7 agosto 1950: “Ci comandarono di fermarci, disporci ai bordi della strada, sul Monte Croce, ordinati e disciplinati”. Poi quell’attimo fuggente: “Il Giro, i corridori, il gruppo, e nel gruppo loro due, Gino Bartali e Fausto Coppi”. Un attimo fuggente sulla strada e mai più fuggito dalla memoria. Il Giro della prima vittoria finale di uno straniero, Hugo Koblet, svizzero, il Giro dell’ultima vittoria di tappa di Bartali, poi secondo nella generale, il Giro della caduta di Coppi sulle Scale di Primolano, arrotato, fratturato e ritirato. Quel Giro.
Romolo ha la bellezza di 96 anni: la carta d’identità recita 2 maggio 1928. Alto, diritto, robusto. Occhi vagamente azzurri. Pelle abbronzata dalle camminate dell’alba, cinque-sei chilometri, tutti i giorni, una medicina naturale per riabilitarsi dopo una malaugurata “cascata”, come dice lui. Abruzzese, nato a Intermesoli, residente a Montorio al Vomano, vacanziero a Pietracamela, marito (di Maria, 95 anni), padre, nonno, bisnonno. Lo conoscono tutti, qui: perché è il più anziano del paese, perché ricorda, perché racconta. A cominciare dalla sua storia. “Papà Pietro minatore, da emigrato in America e Canada, poi anche qui. Mamma Angeladea casalinga, che significava fare tutto di tutto. Una sorella maggiore del 1920, Inglesina, e un fratello maggiore del 1924, Remo”. Tutti a distanza di quattro anni, come le Olimpiadi. “La scuola, poca, la quarta elementare si faceva a Intermesoli, la quinta a Pietracamela”. La scuola vera era quella della vita. “Il mio primo lavoro: musicante, molto flicorno, poca cornetta, nella banda di Intermesoli”. Poi la guerra. “I paesi si spopolarono: gli uomini richiamati, i cantieri fermi. Un po’ facevo il pastore, un po’ il cardatore. L’arte di stendere e battere le fibre per pulirle prima di filare la lana. D’estate ci si dedicava alla campagna: trebbiare il grano, raccogliere i legumi, seminare le patate, falciare l’erba… In autunno ci si occupava della cardatura, di casa in casa, di paese in paese: vitto, alloggio e un tanto – 30 lire – al chilo. La prima volta, era il 27 agosto 1942, a Basciano”. E con quella tavola di legno, 80 centimetri in lunghezza e 25 in larghezza, con due maniglie, lavorando seduto, Romolo pettinava la lana a ritmi oggi impossibili: “La sveglia alle quattro-quattro e mezzo, poi dodici ore di lavoro fino a sera, un massimo di quattro chili al giorno”. La prima volta che tornò a casa, dopo quattro mesi senza aver dato notizie, “mia madre mi accolse piangendo e giurò di non farmi più andare via. E invece andai via. Fino al 1946”. Il successivo impiego, all’Enel, sarebbe stato meno faticoso e più duraturo: 38 anni.
Prima di illuminarsi di Gino e Fausto, Romolo ebbe un altro incontro speciale: “Era il 2 settembre 1943. Pascolavo un gregge di pecore, 400, numerate, dietro l’albergo Amedeo di Savoia Duca d’Aosta a Campo Imperatore. Invece lo stazzo, uno dei tre a Campo Imperatore, si trovava sotto l’albergo, vicino alla fontana. Vidi militari e carabinieri. E venni a sapere che, prigioniero, c’era Benito Mussolini. Il 3 settembre un altro pastore, Amedeo Diodato, fu fermato proprio da quei militari. Qui no!, gli intimarono. Ma io sono conosciuto dal personale dell’albergo!, si difese lui. A salvarlo dai guai fu Alberto Faiola, il tenente dei Carabinieri che aveva condotto l’operazione del Duce. Amedeo e Faiola si erano conosciuti a Bracciano, durante una battuta di caccia. Si riconobbero e si abbracciarono”.
Romolo vide Mussolini la volta in cui portò spinaci selvatici in uno zainetto (“Elisa Moscardi, la governante che si occupava della pulizia della camera e dei pranzi di Mussolini, mi disse che erano pochi”), la volta in cui portò i broccoletti (“Stavolta in grande quantità”), le volte in cui il Duce giocava a carte con i militari e i proprietari delle pecore, infine la volta in cui Mussolini se ne andò. “Era il 12 settembre. All’improvviso in cielo apparvero 12 alianti, nell’albergo altri soldati. Non sapevamo se fossero tedeschi o americani. Faiola e i suoi non opposero resistenza. Udimmo due spari. Pensai che fosse stato ucciso qualcuno. Invece era il segnale per l’inizio di una nuova operazione. Poco dopo le ‘cicogne’, velivoli a motore, trainarono l’aliante in quota, e Mussolini sparì”. Prima a Pratica di Mare, poi a Vienna, quindi a Monaco di Baviera, infine nella Tana del Lupo, allora Prussia, oggi Polonia. “Il 13 settembre dei tedeschi non c’era più traccia. Ma l’albergo era stato messo sottosopra e svaligiato. Fui fermato, interrogato, accusato. Non ne sapevo nulla. Poi fui tenuto, con altri tre, in una sala da pranzo dell’albergo, sotto tiro da una guardia armata di fucile. Finché rintracciarono i tre ladri. I due a piedi si dileguarono nel bosco, quello con un mulo carico di coperte fu beccato. Restituita la refurtiva, venne lasciato libero. Il 14 settembre il tenente Faiola se ne andò”. E a Campo Imperatore scoppiò la pace.