Cento anni fa, ieri, nasceva Sandrino Carrea. Nasceva a Gavi, nasceva come Andrea, nasceva di una povertà contadina e dignitosa, e chissà come era da piccolo, sempre che lo sia stato. L’unico a poterlo raccontare era rimasta la sorella, Edda, che aveva tre anni in meno. E lei, al suo ultimo chilometro ridotta a un bonsai, giurava che Sandrino era proprio un bel bambino, e poi un bel ragazzino, e insomma un bel figliolo, niente a che vedere con l’uomo grande e grosso, forte e rude, brusco e selvatico, però con un cuore grande così, e un naso curvo, ma non triste, da salita.
Sandrino Carrea stava a Fausto Coppi come nessun altro a Eddy Merckx o a Tadej Pogacar. Perché anche i gregari dei campioni vanno e vengono, come le stagioni, come gli amori, come le vendemmie, invece Carrea rimase. Gregario da salita, gregario al Giro e al Tour, gregario nella Bianchi biancoceleste e in nazionale azzurra, gregario il giorno in cui il mondo crollò, a tutti, a lui soprattutto, addosso, era il 2 gennaio 1960 quando Coppi si spense, gregario nei ricordi e nei confronti, nelle testimonianze e nella presenza, nelle messe del 2 gennaio e nelle dediche del 15 settembre, gregario anche nei silenzi e nei sospiri, gregario fino all’ultimo giorno per un rispetto che oggi non è più dato conoscere. Gregario per sempre. Eletto angelo custode, Carrea si ritrovava più nel custode che non nell’angelo. Si era mai visto un angelo mangiare cinghiale e bere rosato, coltivare pomodori e scrollare ciliegi, staccare rami di cachi e inghiottire grappoli di uva? No. Ma lui sì.
Cominciò a correre per Coppi: non Fausto, ma Serse. Serse era il Coppi rovesciato, quello allegro, matto, indisciplinato, sfrenato, di grande successo con le donne più che fra i corridori, contagioso nella sua necessità di prenderla sul ridere. Serse accompagnò Sandrino da Biagio Cavanna e il cieco, come gli mise le mani addosso, vide – sì, vide - che quel Carrea aveva le stimmate del gregario perfetto, ideale per il suo Fausto: mani nodose, avambracci potenti, spalle muscolose, cosce inesauribili, perfino l’accento giusto, un tortonese quasi dei colli con la erre arrotondata e arrotante, come una ruota.
Prima la Siof, che era l’Under 23 della Bianchi, poi la Bianchi, che era il Real Madrid del ciclismo. Con tanto di “cantera”, di “college”, di “università del ciclismo”, un cortile a Novi Ligure in cui i corridori abitavano, vivevano, mangiavano insieme, si lavavano a turno - in una tinozza e lavando – ciascuno il suo – magliette e pantaloncini da allenamento e gara. Qui il normanno astro nascente Jacques Anquetil, giunto per scoprire i segreti del Campionissimo, attuò la fuga più lunga e vincente della carriera, e non ci tornò più. Piuttosto di rimanere lì, da prigioniero più che da stagista, avrebbe smesso di correre ancora prima di cominciare a vincere.
Gli annuari del ciclismo sbrigano la scheda Carrea in un paio di righe: tutte e due si riferiscono all’anno di grazia) 1952. La prima riga per il Giro di Romandia, 18 aprile, seconda tappa, la Martigny-Ginevra di 201 chilometri, primo; la seconda riga per il Tour de France, 3 luglio, la nona tappa, la Mulhouse-Losanna di 238 chilometri, maglia gialla. La vittoria, amen, cose che succedono, minimizzava Sandrino, la voce che bolliva come un pentolone di borlotti. Ma la maglia, un guaio, cose che non devono succedere, sospirava, alzando le sopracciglia al cielo. Era andata che, d’accordo con Fausto, aveva seguito un manipolo di uomini da classifica in una fuga per controllarli, intristirli, fargli da zavorra. Solo che la fuga era arrivata al traguardo, lui dal traguardo se n’era andato in albergo, e qui richiamato in fretta e furia dagli organizzatori, c’erano le premiazioni di che?, del tuo primo posto in classifica! Quando tornò in albergo, mesto, pentito, preoccupato, da Coppi fu accolto con una pacifica pacca sulle spalle. E Sandrino, che sapeva di averla fatta grossa, tornò al mondo. Il giorno dopo il Tour, il ciclismo, il mondo salirono per la prima volta sull’Alpe d’Huez. Coppi vinse per distacco. Carrea giunse al traguardo tirando i freni. Poco dopo, conosciuto il distacco, elargì finalmente uno dei suoi rari sorrisi: aveva perduto la maglia gialla per sei secondi, perdipiù consegnandola proprio a Coppi, e meglio di così non si poteva immaginare né sognare. In cuor suo si ripromise di non azzardarsi mai più a rubare una vittoria, una maglia, un titolo, un palcoscenico, un mazzo di fiori, un bacio o una foto. E ci riuscì.
Il giorno in cui mi recai a casa Carrea, con il fotografo Carlo Orsi, complice una intervista per “La Gazzetta dello Sport”, fui accolto con sospetto e trattato sotto esame. Sandrino ci definiva non giornalisti ma giornalai. Poi dalla pubblicazione del pezzo ottenni la straordinaria autorizzazione di varcare la soglia del cancello senza neppure bisogno di avvisarlo, oltre a ricevere cassette – a seconda della stagione - di pomodori, ciliegie e cachi. Sandrino, Anna, Edda, Marco e Julia, Pierino Zanelli e Renzo Zanazzi, Claudio Gregori e Beppe Figini, suo “fratello” Ettore Milano e Walter Almaviva. Come chiamarle: tavolate, rimpatriate, comunioni. E quel naso curvo come una salita diventava fin poetico.
PS Tanto ho scritto di Carrea, mai abbastanza, e non necessariamente per un anniversario, così da aver fallito (o dribblato) quello tondo di ieri. Tanto ho scritto per “La Gazzetta dello Sport” e Tuttobiciweb, e non solo. Il testo della prima intervista è compreso in “Vai che sei solo” (Libreria dello sport, 1996), ben altro in “Gli angeli di Coppi” (Ediciclo, 1999) e in “Coppi ultimo” (66thand2nd, 2019), e anche in “Una vita da gregario” (con Giuseppe Castelnovi, Sep Editrice, 2004), “Coppi, ma Serse” (con Castelnovi, Litho Commerciale, 2001) e “Diavolo di un corridore – corse, battaglie e miracoli di Renzo Zanazzi” (Italica Edizioni, 2015).