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YOUNG REVOLUTION
di Paolo Broggi | 29/11/2019 | 07:53

Se prendete le nove gare più importanti del mondo - i tre grandi giri, le cinque classiche monumento e il mondiale - e scoprite che ot­to corridori ne hanno vin­ta una per la prima volta, come la volete chiamare se non rivoluzione? E se degli otto nuovi vincitori sei hanno da trent’anni in giù, come la volete chiamare se non rivoluzione giovanile?

Quello che ha vissuto il ciclismo mondiale nel 2019 è un radicale cambio generazionale che ha riscritto colori e confini del panorama. Per capire l’entità della rivoluzione, bastano due dati: dal 1909 - praticamente in tempi ancora pionieristici - non c’era un dominatore giovane al Tour de France come Egan Bernal mentre non c’era mai stato, nel­la storia del World­Tour (e prima del ProTour) un vincitore tanto giovane come Remco Evene­poel, classe 2000, primo a San Se­ba­stian al termine di una corsa fantastica e capace di laurearsi, pochi giorni più tardi, anche più giovane campione continentale della storia conquistando il titolo della cronometro.

Non solo cambio generazionale, ma quest’anno abbiamo assistito anche ad una rivoluzione geopolitica: per la pri­ma volta nella storia un corridore ecuadoriano e uno sloveno hanno vinto un grande giro, per la prima volta un corridore danese ha conquistato la maglia iridata, per la prima volta un ciclista colombiano è salito sul gradino più al­to del Tour de France.

Certo, le nazioni storiche del ciclismo restano sempre un punto di riferimento - nella classifica mondiale guidano nell’ordine Belgio, Italia, Olanda e Fran­cia - ma la concorrenza delle nuo­ve realtà si va facendo sempre più pressante e concreta. Nuovi modi di pensare, ma soprattutto nuovi modi di concepire lo sport e l’educazione alle discipline sportive portate avanti anche grazie alla collaborazione con le scuole e ad investimenti mirati per costruire impianti e ciclodromi...

L’ITALIA... Ogni riferimento a persone e fatti italiani è puramente voluto e per nulla ca­suale. Nel nostro Paese si sta facendo ancora troppo poco - per non dire nulla - per educare i giovani allo sport, quale che sia, gli investimenti so­no sempre preda di burocrazia e solite storie italiche (vedi il velodromo di Tre­viso, con una società che ha portato i libri in tribunale e i lavori fermi da me­si) e quel poco che si muove lo si deve al genio e alla generosità di qualche industriale giustamente attento alla propria realtà locale. In questo panorama, hanno con­tinuato a navigare a vista le quattro formazioni Professional italiane - che restano, vo­lenti o nolenti, la massima espressione del nostro ciclismo - con esiti alquanto differenti. Bene come nelle ultime stagioni la Androni Si­der­mec, che per il terzo anno consecutivo conquista la Ciclismo Cup e può fregiarsi di ben 32 successi e di un bel numero di corridori - Cattaneo,. Ma­sna­da e Vendrame in ordine alfabetico - portati anche in questa stagione al WorldTour. Buo­ne cose ha fatto la Ne­ri Sottoli Selle Italia, trascinata in particolare nel finale di stagione da un Gio­vanni Visconti che sembra voler ingaggiare un duello personale con l’età.
Non bene, invece, Bardiani Csf e Nip­po Fantini. I reggiani hanno vinto solo tre corse: al Giro d’Italia, pur en­trando spesso nelle fughe, non hanno mai dato l’impressione di poter puntare al bersaglio grosso e nelle gare del calendario italiano hanno raccolto davvero poco. Gli spezzino-abruzzesi della Nippo Fan­tini hanno sì vinto una bella tappa al Giro grazie alla “lucida follia” di Da­miano Cima, ma per il resto han­no fallito su tutti i fronti, al punto che la squadra ha deciso di chiudere l’attività a fine stagione. Una chiusura che il ma­na­gement della squadra ha imputato ai nuovi regolamenti e alla Riforma che sta per entrare in vigore, ma un dato che deve far riflettere è che sì la squadra chiude, ma tutti gli sponsor principali restano nel ciclismo portando il loro sostegno ad altri progetti.

...E GLI ITALIANI. Al top, sempre quelli. Elia Viviani, che per il secondo anno consecutivo è il migliore azzurro della classifica mondiale, il plurivittorioso e il vincitore dell’Oscar tuttoBICI. Vincenzo Nibali, che lotta con l’età e continua ad essere il punto di riferimento del movimento per le grandi corse a tappe, secondo al Giro e vincitore di una splendida tappa in coda ad un Tour che non avrebbe voluto disputare; Diego Ulissi che fa della continuità di rendimento il suo punto di forza anche se gli manca sempre la vittoria capace di fargli fare il salto di qualità. E poi due giovani rampanti: Alberto Bettiol ha firmato un capolavoro assoluto al Giro delle Fiandre ma poi si è un po’ eclissato e non è riuscito a ripetersi, mentre Giu­lio Ciccone - che ha vinto la tappa del Mortirolo e la maglia azzurra al Giro e indossato la maglia gialla per due giorni al Tour - dovrà cambiare marcia dal prossimo anno per capire se nel suo futuro ci sono le classifiche dei grandi giri. Un applauso anche a Matteo Tren­tin, che ha sfiorato il mondiale, vinto sei corse e si è conquistato un ruolo da protagonista nel ciclismo che conta. La super delusione, purtroppo, ancora una volta arriva da Fabio Aru: inizio di stagione disastroso, poi l’intervento alla arteria iliaca femorale, la scelta affrettata di correre il Tour e il fisico che presenta il conto alla Vuelta. Inutile dire che il 2020 è l’anno in cui il sardo si gio­ca tutto dopo tre stagioni sotto tono.

SIGNORE DEL MONDO. L’uomo che ha strozzato l’urlo in gola all’Italia sul traguardo di Harrogate si chiama Mads Pedersen, compirà 24 anni nel prossimo mese di dicembre e ha portato per la prima volta nella storia il titolo nella sua Danimarca. Cor­ri­dore decisamente interessante, capace di arrivare secondo al suo primo Fiandre, è proprio nelle classiche che cercherà di dare il meglio di sé e di onorare la maglia iridata ereditata dall’eterno Valverde.

I RE DEI GIRI. Terreno principale della rivoluzione giovanile e geopolitica sono stati i grandi giri. In Italia è sbocciata a sorpresa una nuova rosa: Richard Carapaz, ragazzo arrivato da un piccolo villaggio del­l’Ecuador, planato al Giro per fare da luogotenente a Landa e capace di in­ventarsi una doppia azione decisiva sul­le montagne di Piemonte e Valle d’Aosta, approfittando della rivalità fra Nibali e Roglic. Dopo il Giro in realtà non lo abbiamo più visto pedalare forte ma la Ineos ha puntato su di lui per rafforzare ulteriormente il blocco dei cacciatori di grandi giri e il team britannico non si muove mai a caso.

In casa Ineos, Carapaz si troverà al fianco di Egan Bernal: il colombiano, predestinato ad una grande carriera, ha forse anticipato i tempi e spiazzato un po’ i vertici del suo team. Avrebbe dovuto correre il Giro ma proprio alla vi­gilia si è fratturato una clavicola, avrebbe dovuto correre il Tour in ap­poggio ai capitani ma Froome è rimasto vittima di un bruttissimo incidente e Thomas non è stato forte quanto Egan sulle grandi montagne. Così a soli 22 anni Bernal è entrato nella storia vincendo il Tour de France senza di­menticare mai di ringraziare quell’Italia e quegli italiani che lo han­no accolto e aiutato a crescere. A loro ha dedicato il successo al Gran­pie­mon­te e il terzo posto a Il Lombardia.

Infine Primoz Roglic, il numero uno del ciclismo mondiale, il re dei rivoluzionari. Saltatore con gli sci di livello assoluto da juniores, poi vittima di un brutto incidente, protagonista nelle granfondo, approdato al ciclismo che conta nella Adria Mobil a dispetto di tutto e di tutti, notato e voluto dalla Jumbo Visma che ha lavorato al progetto e lo ha portato al top. Delle gare a tap­pe disputate quest’anno, l’unica che non ha vinto è il Giro d’Italia (è arrivato terzo, ndr) a dimostrazione di una continuità e di una attitudine non co­muni. Cronoman di livello assoluto, Roglic scatta in montagna e resiste sulle pendenze più dure: recuperargli terreno, una volta che l’ha guadagnato, diventa praticamente impossibile. In più, cosa che non guasta, gli piace dare spettacolo: al Giro dell’Emilia e alla Tre Valli Varesine ne ha dato un bel saggio.

MONUMENTI. Rivoluzione è stata anche sulle strade delle classiche. A Sanremo è arrivato con i favori del pronostico e non ha fallito il colpo Julian Alaphilippe, che si è poi ripetuto alla Freccia e al Tour si è inventato qualcosa di clamoroso, facendo sognare la Francia praticamente fi­no agli ultimi chilometri di montagna. Nel finale di stagione, ma è comprensibile, non è più riuscito a trovare il pic­co di forma ma è sicuramente destinato a confermarsi un numero uno nelle prossime stagioni e a mettere anche alcune classiche, mondiale compreso, nel mirino. Detto del Fiandre a sorpresa di Bettiol, l’Italia ha sognato il colpaccio anche alla Liegi con Davide Formolo (che a giugno sarebbe diventato campione italiano) che è stato l’unico a cercare di contrastare Jakob Fuglsang, che ha 34 anni ha vissuto la sua stagione più bella e l’ha coronata appunto con il successo nella Do­yenne. Il Lombardia, invece, ha regalato la vittoria più importante della carriera a Bauke Mol­lema, un corridore che non è un fe­nomeno ma che ha la straordinaria capacità - e non è davvero da tutti - di lottare con grinta su ogni terreno, cercando sempre di dare il massimo per sé e per la squadra. A Como, il re dei piaz­zati ha conquistato un piazzamento da re. Ed è stato bello applaudirlo.

Abbiamo tenuto per ultimo un altro re come Philippe Gilbert: alla soglia dei 37 anni il belga si è regalato l’impresa alla Roubaix, vincendo la resistenza del coriaceo Nils Politt e conquistando co­sì il suo quarto monumento. Gli manca la Sanremo, che è la corsa meno adatta a lui, ma ci riproverà: per continuare a correre tre anni ancora, ha rifiutato il ruolo da manager che gli offriva Le­fe­vere ed è tornato alla Lotto Soudal. Spiegando semplicemente che ha ancora dei sogni di rincorrere e, possibilmente, da realizzare.

NUMERI. Lassù, in testa alla classifica delle squadre plurivittoriose della stagione c’è sempre il Wolfpack, il branco di lupi della De­ceu­ninck Quick Step. Settanta successi, a due so­le lunghezze dal record fatto segnare nel 2018, per la squadra di Patrick Lefe­vere che ogni anno lotta con un budget non a livello dei più alti, cede pedine importanti ma riesce sempre a trovare gli uo­mini giusti e soprattutto a creare il clima vincente in seno al team. Un capolavoro.

In Italia, invece, il titolo di formazione plurivincitrice va alla Androni Sider­mec che è arrivata a quota 32 e ha raggiunto addirittura il sesto posto in questa speciale classifica, per un risultato decisamente niente male. Il team di Gian­ni Savio è anche di gran lunga la miglior formazione italiana nella classifica mondiale.

Il titolo di corridore plurivittorioso nel nostro Paese va ancora una volta ad Elia Viviani che ha timbrato undici successi tra i quali spiccano una tappa al Tour, Amburgo e il titolo europeo conquistato ad Alk­maar. Dietro di lui Marco Benfatto del­la Androni Sidermec a quota 8, Nic­colò Bonifazio della Total Direct Ener­gie a sette e un quartetto di uomini con sei successi: Matteo Trentin della Mit­chelton Scott, Matteo Peluc­chi della Androni e due “Continental” come Andrea Bagioli della Colpack e Alberto Dainese (campione europeo Under 23) della SEG Racing..
In totale, nelle corse del calendario internazionale UCI sono sessanta i corridori italiani che hanno festeggiato almeno una vittoria per un bottino totale di 145 successi in chiave tricolore.

RIFORMA. La grande madre di tutte le paure, i cambiamenti, le riflessioni. Segreta, impenetrabile, incomprensibile: a fine ottobre non si sa ancora dove porterà. Le squadre, soprattutto le Professional che diventeranno ProSeries (ma poco importa) stanno cercando di capire quale calendario seguire nella prossima stagione, dove far punti, come indirizzare la propria politica sportiva e ge­stionale. Mancano certezze e quelle che ci sono... Le squadre WorldTour diventeranno 19, in pratica 20 con la To­tal Direct Energie che, miglior Pro­fessional del 2019, avrà il diritto di essere invitata a tutte le corse della massima categoria. Agli organizzatori re­steranno due sole wildcard per i gran­di giri, quattro per le classiche. Come dire che ci saranno tanti scontenti e inevitabili ricadute sugli sponsor e sui movimenti nazionali più in difficoltà, tra i quali il nostro. L’Uci continua a proclamare il suo impegno per una crescita mondiale del movimento, sbandiererando i vessilli dell’etica e della meritocrazia sportiva a de­stra e a manca ma di fatto ci propone l’ennesima versione di un sistema bloccato e fortemente francocentrico. Chi ha cercato di andare controcorrente, vedi molti superteam con il progetto Velon, per ora è stato implacabilmente respinto. Chi nemmeno ha cercato di reagire o lo ha fatto in maniera tardiva e confusa, come l’Italia, si lecca le ferite. E piange lacrime amare.

da tuttoBICI di Novembre

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