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CAPITANI CORAGGIOSI. I FRATELLI GASTALDELLO: «UNITÁ DI INTENTI PER FAR CRESCERE ANCORA LA WILIER». GALLERY
di Pier Augusto Stagi | 02/10/2024 | 08:20

Non si sovrappongono mai, ognuno ha il proprio spazio e se ne guardano bene dal debordare, dal togliersi la pa­rola. Tre fratelli, una fa­miglia e un’azienda che poi è impresa di qualità nel mondo, che guarda al proprio passato in egual mi­sura a quello che sono chiamati a fare nell’immediato futuro. Tre fratelli: An­drea, Enrico e Michele. Un solo cognome: Gastaldello. Sono i tre moschettieri al servizio della Wilier Triestina, il loro re, il loro scrigno d’oro, la loro sa­cra corona da proteggere e mostrare al mondo.

Tre è il numero perfetto, anche se in campo societario spesso si dice che nel­la propria azienda bisognerebbe avere dei soci “dispari e minori di due”. Loro sono dispari e fanno corpo unico. Zero interferenze, ognuno parla sempre e solo a domanda, con un filo di voce, non prima d’aver fatto una pausa, per accertarsi che quello che sta per dire coincida non solo con quello che hanno nel cuore, ma con quello che hanno in mente. Sono loro i nostri “Capitani Coraggiosi”, i tre personaggi del mese che hanno accettato di raccontare e raccontarsi come mai hanno fatto in passato.

Vi faccio una data: 1906.
Andrea: «Nasce a Bas­sano del Grappa la Wi­lier, gra­zie a Pietro Dal Mo­­lin che quell’anno acquisì il marchio inglese Wi­lier e iniziò a produrre biciclette di sicurezza. Chi, dopo la guerra, colse tutte le opportunità ciclistiche dell’epoca fu Mario Dal Molin, uno dei figli di Pietro, che mutò il no­me della fabbrica in Ciclomeccanica Dal Molin e inaugurò i nuovi reparti di cromatura e nichelatura che ampliarono ulteriormente gli orizzonti produttivi dell’azienda».
Enrico: «Gli austriaci in­combevano e quella non fu solo una semplice bi­cicletta, ma una sor­ta di manifesto politico. Di­fatti, alla fine del secondo conflitto mondiale, al vecchio nome originario Wilier, fu aggiunto poi un aggettivo adeguato ai tempi per una città ancora contesa: Trieste. Come simbolo fu scelto lo stemma di Trieste: l’alabarda. E la leggenda narra, ma forse è qualcosa di più, che Wilier significasse in realtà W l’Italia LIbera E Redenta. Fu anche in­gag­giato un corridore nativo di quella terra: Giordano Cottur. Fu una vera è propria azione di marketing ante litteram».
Michele: «Il 30 giugno del 1946, la dodicesima tap­pa del Giro prevedeva l’arrivo a Trieste, ma la frazione venne fermata a Pieris a causa di una sassaiola organizzata - secondo i giornali - dai sostenitori dell’annessione di Trie­ste al territorio jugoslavo. Tutto si ri­solse con un indescrivibile bagno di fol­la che coinvolse i corridori con l’alabarda, culminato con la vittoria sul traguardo del triestino Giordano Cottur, capitano della squadra. Fu questo il primo grande successo dell’idea promozionale di Mario Dal Molin e del suo direttore tecnico Giovanni Zan­donà».

Anni di successi.
Andrea: «Tra il 1946 e il 1950 le af­fermazioni non si contano. Il marchio Wi­lier Triestina diviene in breve tem­po popolarissimo. Il momento più al­to? 1948, Fiorenzo Magni conquista la clas­sifica generale del Giro d’Italia e la squadra piazza al terzo, al settimo e de­cimo posto Giordano Cottur, Giulio Bresci e Alfredo Martini. Insomma, le Wilier erano le biciclette più competitive del momento ed erano prodotte a Bassano del Grappa dalla Ciclomec­canica Dal Molin».
Enrico: «Sono anni esaltanti, nei qua­li Fiorenzo Magni, il terzo uomo del ciclismo italiano, su biciclette “ros­so ramato” conquisterà anche per due anni di fila (1949 e 1950) il Giro delle Fiandre, divenendo così il Leone».
Michele: «Nonostante i successi sportivi, i Dal Molin non furono in gra­do però di rispondere con la stessa ve-locità alle nuove esigenze del mercato. A complicare le cose fu anche un mancato pagamento di un’ingente fornitura di biciclette in Argentina: questo fu il colpo di grazia. Dopo soli quattro anni dal successo al Giro, la fabbrica della Ciclomeccanica Dal Molin venne ceduta alla Meccanica Moderna Milano che mantenne in funzione solo alcune linee produttive per pochissimo tempo e poi chiuse lo stabilimento».

Altra data, 1969.
Andrea: «La bicicletta sta vivendo un momento molto delicato, l’avvento dell’automobile legato al boom economico ormai ha preso il sopravvento e mette in difficoltà la regina della strada. La famiglia Dal Molin, che ha fatto tanto per il marchio Wilier Triestina, come detto era stata costretta a cedere la ma­no e nostro nonno Giovanni - pa­pà di Lino e Antonio - acquisì il leggendario marchio in una procedura concorsuale e trasferì la produzione a Rossano Veneto».
Enrico:  «Nonno Giovanni ha la vi­sione, nonostante l’auto stia prendendo sempre più spazio. Sa che si può fare un grande lavoro. La bicicletta è sempre la bicicletta. Così parte in questa nuova avventura coinvolgendo i suoi due figli: Lino - nostro papà -, che si dedicherà al negozio e alle vendite, e Antonio, che viene subito dirottato sul­la produzione».
Michele:  «Sarà proprio nostro pa­pà a mettere maggiore impeto in questo progetto e non è nemmeno un caso che, dopo qualche anno, le quote del fratello le acquisì lui e oggi le abbiamo in portafoglio noi. Papà Lino fece un lavoro pazzesco: grande visione e so­prattutto passione, cosa che ci ha trasmesso».

1979.
Andrea: «Le cose funzionano e il marchio Wilier torna di fatto in gruppo a tutti gli effetti nel 1979. Le biciclette Wilier sono adottate dalla Mecap Hoon­ved, che ha in Mario Beccia il corridore di riferimento. Quell’anno concluse il Giro al 6° posto, a 7’50” da Beppe Saronni. Nonostante l’aspetto sportivo andasse bene, papà Lino e lo zio decisero di soprassedere e puntare sull’assetto produttivo dell’azienda che stava rapidamente crescendo e che pertanto necessitava d’un accurato controllo della gestione. Nel 1989, torniamo in grande stile. Papà Lino, diventato nel frattempo unico titolare di Wi­lier Triestina, portò l’azienda nell’attuale sede di via Fratel Venzo, a Ros­sa­no Veneto e nel 1995 decise d’affacciarsi nuovamente nel mondo del ciclismo agonistico, supportando la Bre­scialat di Massimo Podenzana e affiancando poi, nel 1997, su suggerimento di Beppe Martinelli, la Merca­tone Uno di Marco Pantani. Quella stagione fu indimenticabile perché Marco, pedalando sulla sua Wilier gialla in alluminio, ottenne due grandi vittorie al Tour de France - all’Alpe d’Huez e a Mor­zi­ne - e concluse la Gran­de Boucle al ter­zo posto della classifica generale, dietro Jan Ullrich e Richard Virenque. Pen­si che all’epoca l’azienda fatturava 15 miliardi di lire e l’intesa con la Mer­catone fu di 500 milioni. Ricordo che in quel periodo, fin dal mese di gennaio, alla sola notizia che saremmo sta­ti partner di Mar­co, ci arrivavano ogni giorno decine e decine di fax chiedendoci la bicicletta di Marco Pantani».
Enrico: «Oltre che procedere nel costante sviluppo industriale, l’azienda ha continuato ad essere sponsor tecnico di importanti squadre professionistiche. Nel 2004 Davide Rebellin, in maglia Gerolsteiner realizzò una clamorosa tripletta nelle classiche delle Ardenne: Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi. Grandi soddisfazioni le raccogliemmo al fianco del Team Lampre di Beppe Saronni che culminarono nel 2007 con uno strepitoso successo al Giro delle Fiandre e l’anno successivo con il Campionato del Mon­do di ciclismo su strada, entrambi conquistati da Alessandro Ballan».
Michele: «Fu poi Michele Scarponi, nel 2011, a far assaporare nuovamente in casa Wilier il gusto della vittoria nella classifica generale del Giro d’I­ta­lia. Così come Alessandro Petac­chi, che seppe vincere la maglia verde della classifica a punti al Tour de Fran­ce. Più recente è invece la partnership col Team Astana, che ha portato risultati altrettanto lusinghieri come la vittoria di Jakob Fuglsang al Giro di Lombar­dia 2020 e lo strepitoso e storico successo di tappa, il 35esimo per lui, di Mark Cavendish al Tour di quest’anno».

Un marchio ormai globale.
Andrea: «L’Italia è il nostro primo mercato, vale complessivamente il 20% del totale. L’Europa nel suo complesso pesa per il 55 per cento e l’extra Ue per il 25 per cento. Ed è proprio qui che nel prossimo futuro vorremmo provare ad espanderci ancora un po’, ancora di più. Il SudEst asiatico è un mercato molto interessante e il fatto di aver ac­quistato una azienda a Taiwan, che funziona da hub per quella parte di mondo, va esattamente in quella direzione. È altrettanto chiaro, però, che guarderemo sempre di più anche gli Stati Uniti, anche se non è un mercato semplice».
Enrico: «In ogni caso l’Italia è un mercato di riferimento: è casa nostra. È la nostra tazza di tea e il fatto di aver acquisito nel 2022 la Miche ruote lo dimostra».
Michele: «Diciamo che da tempo immemorabile abbiamo abbandonato la costruzione di bici da passeggio per concentrarci su tre macro aree: corsa, mountain bike e gravel. Questa è una scelta basata e dettata soprattutto dalla qualità».

Papà Lino.
Andrea: «È mancato troppo presto, a soli 72 anni, travolto da una macchina nel 2010 quando era in bicicletta, la sua grande passione».
Enrico: «Lavoratore pazzesco, ma non l’ho mai sentito lamentarsi, perché fa­ceva il lavoro che più amava».
Michele: «La Wilier Triestina per papà era un’azienda di famiglia, difatti ha sempre coinvolto la nostra famiglia e quelle della zona. Una vera comunità».

Mamma Elisa.
Andrea: «Una grande mamma. Ha 85 anni e ancora adesso non si perde una corsa. Il ciclismo fa parte di lei».
Enrico: «Ancora oggi passa dall’azienda a controllare che sia tutto a po­sto e in ordine, soprattutto che le piante sia­no in salute: lei le ama».
Michele: «Ha sempre avuto a cuore Da­miano Cunego e si preoccupava quando attraversava momenti difficili nei quali non vinceva».

Quando siete nati?
Andrea. «Io l’8 ottobre del 1977».
Enrico. «Il 12 giugno del 1966».
Michele. «Io il 24 settembre del 1968».

Prima bicicletta?
Andrea.  «Wilier, naturalmente. Pa­pà era tra i pochissimi che produceva biciclettine per bambini, con le ruotine del 10. Era una bellissima Wilier di colore rosso».
Enrico. «Penso che tutti e tre, a tur­no, abbiamo avuto la stessa biciclettina. Anche perché tutti abbiamo avuto una Wilier di color rosso. Se era la mia vera passione? Io sono sempre stato molto più appassionato di calcio. Ho anche giocato a discreti livelli: avevo una buona visione di gioco, alla Pirlo, con tutte le debite proporzioni».
Michele. «Confermo: tutti e tre ci siamo formati sulla stessa biciclettina Wilier rossa. Bellissima davvero. An­che a me piace un sacco il calcio. Per chi va il mio tifo? In verità siamo tutti e tre juventini».

Campione del cuore?
Andrea. «Marco Pantani, su tutto e su tutti».
Enrico. «Damiano Cunego».
Michele. «Marco Pantani».

Quali corridori erano di casa?
Andrea. «Tanti, tantissimi, un passaggio lo facevano tutti. Alessandro Ballan è stato tra i più vicini a noi».
Enrico. «Ricordo che uno dei più affezionati al marchio, alla storia e a papà Lino era Alfredo Martini: un ga­lantuomo».
Michele. «Uno corridore molto presente e che con papà Lino aveva un rapporto di grande stima e fiducia era Mario Bec­­cia. Anche lui era di casa qui in Wilier. Anzi, è di casa».

Mamma amava le corse: aveva un campione del cuore?
All’unisono: «Damiano Cunego».

Ma voi tre avete mai provato a correre in bicicletta?
All’unisono: «Mai!».

Siete sposati, avete figli?
Andrea. «Sono sposato con Enrica e ab­biamo una ragazza, Maria Sole».
Enrico. «Sono sposato anch’io, con Ma­ria Guadalupe e abbiamo una figlia: Francesca».
Michele. «Sposato con Katia e ab­biamo due ragazzi: Pietro e Anna».

Qual è stato il vostro percorso scolastico?
Andrea. «Dopo le scuole dell’obbligo mi sono diplomato in ragioneria e poi sono entrato ufficialmente in azienda. In verità tutti e tre, fin da ragazzini, ap­pena finite le scuole, parte delle va­canze le facevamo imparando un me­stiere. Sono stati mesi di formazione molto belli che oggi porto nel mio cuo­re. Da ragazzino servivo in negozio dal bancone, lì ho imparato a relazionarmi con le persone. Oggi presiedo il consiglio di amministrazione, anche se tutti e tre siamo paritetici e complementari: tutti e tre abbiamo le deleghe di amministratore delegato. Io mi occupo dell’aspetto amministrativo e finanziario, oltre a seguire gli affari generali e il budget marketing».
Enrico. «Ho fatto l’Istituto tecnico e poi ho avuto anche un timido approccio universitario, facoltà di Ingegneria, ma il richiamo della bicicletta e dell’azienda era troppo forte e non ho indugiato molto. Oggi mi occupo degli aspetti commerciali, sia in Italia che all’estero. Ma seguo anche gli acquisti presso fornitori di un certo peso».
Michele. «Anch’io sono ragioniere e poi sono entrato immediatamente in azienda e scelta migliore non potevo fare. Mi occupo della parte produttiva e della ricerca e sviluppo».  

Come è stata la vostra infanzia.
Andrea. «Bella e divertente: serena. A scuola me la sono sempre cavata. Co­sa ricordo? Il tanto tempo libero che avevo a disposizione».
Enrico. «Siamo stati fortunati, an­che perché forse abbiamo vissuto in un momento sociale piuttosto buono e fe­li­ce. Erano anni meno complicati. La gente di accontentava di poco».
Michele. «Spensierata».

Una vostra personale passione.
Andrea. «La politica mi è sempre piaciuta tantissimo. Sono stato anche As­ses­sore allo sport e all’ambiente dal 2008 al 2013. Se mi piace questo mo­mento politico? Non tantissimo: troppe fazioni. Quando mi misi in gioco lo feci con una Lista civica di centro de­stra».
Enrico. «Politica zero, non mi piace. Adoro molto la storia. Mi piace un sacco visitare il mondo, conoscere e apprendere le culture che ci hanno preceduto. Mi piace tanto la storia classica: greca e latina. Non disdegno nemmeno la storia locale, del nostro Vene­to».
Michele. «Mi piacciono un sacco i viaggi organizzati».

Il ricordo più bello: un momento iconico?
Andrea. «Il Mondiale di Varese vin­to da Alessandro Ballan. Ero proprio lì, a 100 metri dal traguardo»
Enrico. «La settimana trascorsa al Tour sui Pirenei nel 1997. Non ero mai stato prima al Tour - se non con la Brescialat ma fu una breve apparizione alla partenza di una tappa -. Quell’an­no, invece, mi gustai dal vivo la corsa più bella del mondo in ammiraglia con Beppe Martinelli. Marco non era partito bene in quel Tour, era anche caduto, ma da Pau qualcosa cominciò a muoversi. A Loudenville vinse Brochard, il giorno dopo con l’arrivo a Arcalis ad Andorra, vinse Ullrich ma Marco si fe­ce vedere e ricordo ancora l’entusiasmo dei cronisti italiani che lo avevano preso d’assalto. Una settimana da so­gno, che porto nel mio cuore».  
Michele. «Per noi Pantani ha rappresentato tanto e io conservo il ricordo dell’inaugurazione del Monumento di Pantani a Cesenatico realizzato da Emanuela Pierantozzi. Noi contribuimmo a quel progetto, in particolare papà Lino che stravedeva per Marco. Poi credo che a tutti e tre sia restato nel cuore l’urlo dell’Alpe d’Huez, scalata in 36’40”, record ancora imbattuto. Dopo il grave incidente nell’ottobre del 1995 (frattura della tibia e del perone) alla Milano-Torino, Marco era tornato alle competizioni e la vittoria sull’Alpe d’Huez fu il primo successo dopo mesi di sofferenza. Un urlo per scacciare i brutti pensieri».

Il colore.
Andrea. «Blu».
Enrico. «Azzurro».
Michele. «Verde».

Il cantante o il gruppo.
Andrea. «Umberto Tozzi».
Enrico. «I Coldplay».
Michele. «A me piace un sacco la musica Anni Ottanta: su tutti i Simple Minds».

La canzone.
Andrea. «Gli immortali di Lo­ren­zo Jovanotti».
Enrico. «Viva la vida dei Cold­play»
Michele. «Just like heaven dei The Cure».

Il Film.
Andrea.  «Forrest Gump».
Enrico. «Il Gladiatore».
Michele. «Il primo Matrix».

L’attore e l’attrice.
Andrea. «Tom Cruise e Julia Ro­berts».
Enrico. «Robert De Niro e Sharon Stone».
Michele. «Danzel Washington e Julia Roberts».

Il piatto preferito.
Andrea. «Se ci sono gli asparagi bianchi di Bassano, siamo già a posto. Un piatto con gli asparagi e io sono felice».
Enrico. «“Risi e bisi”. Risotto con piselli».
Michele. «I risotti in generale».

Il vino preferito.
Andrea. «Crémant de la Bour­go­gne».
Enrico. «Trento doc».
Michele. «Franciacorta».

Il fiore.
Andrea. «Orchidea».
Enrico. «Rosa».
Michele. «Le calle».

Il vezzo.
Andrea. «La pochette nella giacca».
Enrico. «Il borsello. Non posso farne a meno».
Michele. «Sono un collezionista seriale di scarpe. Non vi dico quante ne ho».

La debolezza.
Andrea. «Nonostante le apparenze, sono troppo impulsivo: certe volte do­vrei metabolizzare meglio le cose».
Enrico. «Sono un po’ troppo volubile: cambio idea troppo velocemente».
Michele. «Se tu invece di essere qui con carta e penna, avessi una telecamera, non riuscirei a parlare. Perché? Non lo so. La telecamera mi blocca».

La cosa che vi manda in bestia.
Andrea. «I cambi di programmi».
Enrico. «La concentrazione di impegni: la troppa pressione non la sopporto».  
Michele. «In parte la pressione mi manda in ansia e si traduce in insonnia. Dormo generalmente poco? Sì».

Il posto del cuore.
Andrea. «L’Alta Badia».
Enrico. «Il ponte di Bassano».
Michele. «Casa mia».

Crede in Dio?
Andrea. «Assolutamente sì».
Enrico. «Sì».
Michele. «Sì».

Il sogno.
Andrea. «Spero che a mia figlia piaccia quello che noi stiamo facendo. Mi piacerebbe vederla un giorno parte attiva del progetto Wilier che stiamo portando avanti in nome del nonno e del nostro papà».
Enrico. «Se devo essere sincero, spe­ro di avere un po’ più di tempo per me».
Michele. «Sogno una bella vacanza in barca. Mia moglie ha paura, spero e sogno che possa trovare il coraggio di salpare con me».

2020, arriva il fondo Pamoja.
Andrea: «Il fondo Pamoja capital è un family office basato a Ginevra che fa capo a John McCall MacBain. È un fondo svizzero fondato da un canadese. Ha sottoscritto un aumento di capitale dedicato, con un impegno a rimanere nel capitale per almeno dieci anni, che ha conferito circa 15 milioni di euro al capitale dell’azienda in cambio del 38 per cento delle nostre quote. Il restante 62 per cento è diviso equamente tra noi tre fratelli».
Enrico: «L’effetto è stato uno sprint. Nel 2019 noi fatturavamo 45 milioni di euro, nel 2023 siamo saliti a 70 milioni, con un consolidato a 80. L’azienda è cresciuta anche a livello di ebitda, che è passato dal 6% al 10%».
Michele. «È stato un passaggio molto importante e necessario alla luce delle sempre nuove sfide internazionali alle quali siamo chiamati, che chiaramente ci ha ulteriormente gravato di responsabilità. Ma questo fa parte del gioco».

Parlavate di sprint economico, ma in quanto a sprint, quest’anno ce n’è stato uno che ha fatto storia.
Andrea. «La vittoria di Mark Ca­ven­dish è stata qualcosa di davvero speciale. Mark ci credeva, poco prima del Tour era venuto a trovarci per mettere a punto la customizzazione della sua bici. Vederlo vincere a 39 anni, battendo un record che durava da quasi mez­zo secolo, è stata un’emozione in­credibile. Il 7 luglio del 1975 Eddy Merckx, il più vincente ciclista di sempre, vinse la sua 34a e ultima tappa al Tour de France: una crono individuale che si concludeva ad Auch. Il 3 luglio 2024, a Saint-Vulbas, Mark Cavendish ha saputo fare di meglio: 35 vittorie. Su una bici italiana, la Wilier Triestina».
Michele. «È stata una vittoria di tappa, una semplice vittoria di tappa ma solo all’apparenza, perché in realtà si è tradotta in un effetto mediatico che ci ha davvero sorpreso e travolto. Una vittoria che è stata raccontata in tutto il mondo. Oggi la replica della bici con cui Cavendish ha superato il record di Merckx è andata sul mercato a 14.500 euro. La Supersonica SLR di Stefen Küng, addirittura, è un gioiello da 28 mila euro. Per realizzarla la nostra azienda ha fatto l’investimento più im­portante di sempre, oltre 300 mila euro».
Enrico. «Come le abbiamo detto, la vittoria all’Alpe di Marco ha un sapore tutto particolare, ma lo sprint di Mark è stato un tuffo al cuore. Per noi queste cose sono balsamo per l’anima. Noi ci consideriamo già adesso dei privilegiati, solo per il fatto di vedere che il lavoro coincide con la nostra passione».

E adesso?
Andrea. «Si pedala, come sempre e di buona lena. Il piano industriale prevede un’ulteriore crescita graduale del margine operativo lordo con l’obiettivo del 15% nel 2028. Attualmente produciamo circa 28 mila bici all’anno. Vo­gliamo crescere senza mai prescindere però da una elevata qualità e da un elevato gusto estetico».
Enrico. «È chiaro che il fatturato è importante, ma se penso a come po­tremmo essere fra dieci anni, sono cer­to che il nostro brand sarà riconoscibile per qualità e ricerca, non per i volumi di vendita».
Michele. «Il nostro sogno è quello di rendere la Wilier sempre più sinonimo di bellezza ed eccellenza. Siamo una bella squadra, tre fratelli che non hanno paura di farsi in quattro. Spero solo di non perdere ulteriore sonno, ma con i miei fratelli di poter realizzare ancora tanti sogni».

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