Ci sono dei giorni in cui capisci che sta per succedere qualcosa di grande, di eccezionale. Uno di questi giorni, come giornalista, per me è stato il 12 settembre 2015, partenza della penultima tappa della Vuelta.
L’olandese Tom Dumoulin è in maglia rossa da tre giorni. L’ha conquistata con una straordinaria performance nella crono di Burgos. Fabio Aru è dietro di 6”, Purito più lontano e forse rivive l’incubo di Fuente Dé. La tappa è tutta nella sierra madrilena. I gpm da superare sono classici: Navacerrada quasi in partenza, due volte la Morcuera, Cotos nel finale. C’è terreno, ma c’è anche l’olandese che vola e non mostra un minimo cedimento. Prima del via, al bus Astana c’è fermento, Martinelli è elettrico come nelle grandi occasioni. Erano il preludio a un’impresa straordinaria, quella con cui Fabio Aru ha conquistato la Vuelta 2015.
Fabio cosa ti ricordi di quel giorno speciale?
«Mi dicevo sempre: ‘La Vuelta finisce a Madrid’. Dumoulin era molto forte, in forma, ma sapevo che me la potevo ancora giocare. Però il giorno prima, alla 19a tappa, ero caduto sul pavè e, oltre a essermi scorticato un po’, avevo pure perso qualche secondo. Per Cercedilla con Martinelli avevamo studiato la tattica e sapevamo che dovevamo attaccare. Io avevo compagni straordinari come Luisle Sanchez, Zeits, Landa, Cataldo… Era un’Astana forte».
Per la cronaca: la sera di Avila, Umberto Inselvini (il massaggiatore di Fabio mancato il 27 gennaio del 2023: troppo presto, ndr), era così desolato, così giù di morale per la caduta, che Martino per aiutarlo andò a dormire in camera sua.
Quando hai capito che la Vuelta era tua?
«Sulla Morcuera, quando il vantaggio su Dumoulin era salito a 1’ e il traguardo era più vicino».
Mai avuto paura di non farcela?
«Quando sei in condizione non hai paura».
Che effetto ti fa ripensare a quella Vuelta?
«Beh, è l’unico Grande Giro che ho vinto, quindi è sempre bello parlarne. Nel 2014 avevo fatto 5° al Giro e questo successo mi ha portato in un’altra dimensione. Poi è stato importante perché era una riconferma delle mie potenzialità. Al Giro avevo vinto due tappe e questa era la dimostrazione di essere sulla strada giusta. Avevo chiuso il Polonia al 5° posto, ero magro, forte. In Spagna nella prima settimana sentivo che crescevo e nell’11a tappa mi sono trovato leader in modo un po’ inaspettato».
Cosa vuol dire “mi ha proiettato in un’altra dimensione”?
«In squadra avevo più considerazione. Ero salito nelle gerarchie, quindi programmi di corsa già definiti dall’inizio, mi hanno portato a Morgan Hill nella galleria del vento Specialized».
Immagino che la Spagna ti piaccia.
«Molto, anche se da dieci anni mi sono trasferito in Svizzera dove ci sono altri ritmi, mi piace lo stile di vita spagnolo. Mi piace la gente e il calore che mettono sulle strade i tifosi. Soprattutto i baschi. Mi piacevano anche Tenerife e Sierra Nevada dove facevamo i ritiri, Granada».
Nel 2018 passi alla Uae ed è come se ti spegnesse la lampadina. Te l’ho già confessato: prima mi faceva piacere quando vincevi, ora speravo che ti ritirassi. Mi spiaceva vederti soffrire così tanto. Sembravi costretto, rinchiuso, senza entusiasmo.
«Era il primo anno della Uae che di certo era ben lontana dall’essere la squadra che è oggi. Non era tanto ben organizzata, mentre io ero abituato all’Astana che all’epoca era strutturata molto bene. Per me il passaggio è stato un trauma. Il secondo anno ho avuto il problema all’arteria e sono stato operato. Ho ricominciato e al Tour ho chiuso 14°, però alla fine ero k.o. Hanno voluto portarmi alla Vuelta ed è stato un disastro. Mi sono ritirato dopo 12 tappe finito, con i valori del Cpk alle stelle. Il 2020 c’è stato il Covid e sono stato mesi senza correre. Mentalmente ero distrutto. I problemi capitano, ma quando sono così tanti e tutti in fila ti mettono fuori combattimento. L’unica squadra che avrebbe potuto cambiare il mio destino sarebbe stata la Jumbo. Pazienza, però nessuno può dirmi che non sono stato professionale. Poi ho sempre avuto quello che manca ora, il rispetto dei giovani nei confronti dei campioni affermati. Nibali per me era una divinità più che un compagno di squadra».
Sui social ogni tanto ti vedo in bici: ti alleni ancora?
«Ma no, pedalo ogni tanto giusto per divertimento. Tre volte la settimana vado in palestra e faccio più che altro esercizi per la parte alta. Mi aiuta anche quando sono in viaggio. Mi faccio aggiornare la scheda ogni due mesi. Però ‘no stress’, ho corso in bici per anni e non voglio essere legato a un piano d’allenamento».
Per il resto cosa fai?
«Sono ambasciatore di Forte Village, porto in giro i clienti. In più sto cominciando a studiare il campo immobiliare. Vedremo».