La Vuelta si avvicina. Il 17 agosto è ormai alle porte. Bisogna cominciare ad alzare i giri del motore. Parlare con un grande campione spagnolo aiuta molto. Ascoltare la sua voce in castigliano serve per cominciare a entrare in sintonia con l’ambiente. Lui è Abraham Olano, una vittoria e un secondo posto come corridore, più una decina d’anni nell’organizzazione con la veste di direttore tecnico.
Abraham da dove cominciamo a parlare di Vuelta?
«Da quella che ho perso nel 1995 contro la Once che era una squadra straordinaria. C’erano Jalabert, che poi vinse, più Bruyneel e Mauri che fecero 3° e 4°. Io m’infilai tra loro: secondo. Mi attaccavano da tutte le parti e se io provavo ad attaccare Jalabert, Bruyneel e Mauri, che la Vuelta l’aveva vinta nel 1991, ripartivano. Una sarabanda. A un certo punto, nella tappa di Luz Ardiden, ho capito che dovevo fare due conti e correre per conservare la seconda posizione».
Nel 1998, invece, il trionfo.
«C’è stata molta lotta, un grande stress anche all’interno della squadra fino alla crono finale di Madrid. Con Jimenez in squadra non è stato facile. El Chava era un corridore spettacolare in ogni cosa. Poteva darti tutto e niente. Poteva sfoderare la grande impresa e il giorno dopo uscire di classifica. Nel 1998 eravamo compagni di squadra alla Banesto. Diciamo che molte tappe le ha corse a modo suo, attaccando spesso da lontano, senza seguire una logica di squadra. C’era Escartin, che come rivale era pericoloso, infatti poi chiuse secondo. El Chava andava per conto suo. Nella tappa di Laguna Negra, verso Burgos, mi fece male».
Hai corso per la Banesto (1997 e 1998) e poi sei passato alla Once (dal 1999 al 2002). Come per un calciatore trasferirsi dal Real Madrid al Barcellona. O viceversa. In concreto: sei passato da Eusebio Unzue a Manolo Saiz. Che differenze ci sono tra questi due grandi del ciclismo spagnolo?
«Per prima cosa ti dico che non sono mai stato un corridore che si faceva problemi. Anzi, sono sempre stato molto professionale. Loro avevano - e hanno - caratteri molto diversi che poi si riflettono sul modo di vedere il ciclismo. Manolo era un grande pianificatore. A lui piaceva infiammare la corsa. Cercava lo spettacolo oltre che il risultato. Eusebio era più attendista, preferiva aspettare per vedere cosa facevano i rivali e muoversi di conseguenza. Certo, lui era abitato con Miguel (Indurain, ndr) che con il motore che aveva nel finale risolveva la corsa. Se devo scegliere, dico che mi sono trovato meglio con Manolo».
Con Indurain tra mondiale e olimpiade c’è stata una grande rivalità?
«La vera rivalità è stata nella crono dei Giochi di Atlanta 1996. Vinse lui e io feci secondo. L’anno prima, a Duitama, vinsi il Mondiale in linea con una tattica perfetta e che pochissimi hanno capito. Quel giorno importante era che trionfasse la Spagna. Così è stato».
Con quella vittoria cambia anche il modo di vedere i corridori spagnoli. Prima erano considerati solo scalatori da grandi giri, da quel giorno si afferma una nuova, anche fisicamente, tipologia di atleta.
«Sono stato il primo spagnolo a vincere la prova in linea. Ma dopo di me vennero atleti straordinari come Freire, Astarloa e Valverde. Con Freire e Flecha abbiamo cominciato a farci vedere anche nelle classiche e in Spagna hanno capito che c’è un altro ciclismo oltre a quello dei grandi giri».
Sei stato anche responsabile tecnico della Vuelta. Che cosa vuol dire? Quali erano i tuoi compiti?
«Di base fare andare d’accordo, unire, i paesi e le città che sono partenza e arrivo di tappa. Coordinare le esigenze di tutti, soprattutto cercando di salvaguardare la corsa. Renderla più spettacolare possibile. Per fare questo però bisogna dosare bene gli sforzi, capire le necessità dei corridori. Piacciono le tappe dure, ma non puoi ogni giorno massacrare i ragazzi. La corsa non è di un giorno solo e non devono essere 21 tappe messe assieme senza una logica. Devono essere concatenate, unite come una cerniera. Se sei bravo devi creare un percorso che desti interesse ed emozioni fino a Madrid».
E quella che inizia sabato 17 a Lisbona che Vuelta sarà?
«Questa con i Giochi in mezzo è una stagione complicata. Pare che al via non ci saranno le ‘prime spade’, ma ci sarà lo stesso un grande spettacolo. Anzi, non essendoci il corridore superiore, quello che ammazza la corsa, ci sarà ancora più battaglia. Vedrai che come sempre le emozioni non mancheranno. Negli ultimi anni la Vuelta è cresciuta molto tanto che possiamo dire che dopo il Tour, come livello di partecipazione, c’è lei».
La giornata che potrebbe decidere questa edizione?
«Quella dei Lagos (Covadonga, martedì 3 settembre, ndr). Lì si potrà già fare un bilancio delle forze».
A mio parere, però, alla Vuelta quest’anno manca una tappaccia sopra i 200 km.
«Sono d’accordo con te. Però può essere che gli organizzatori abbiano pensato che in questa stagione con i Giochi i corridori siano un po’ più stanchi. Però di sicuro, a un corridore che prepara il mondiale, una tappa oltre i 200 km, soprattutto nella prima metà della corsa, avrebbe fatto comodo».
Abraham ti alleni ancora?
«Non mi alleno, pedalo. Quando ero impegnato con l’organizzazione della Vuelta mi allenavo si, ma correndo a piedi. Con poco tempo fai tanto. Un’ora è più che sufficiente. Poi sono anche impegnato con gli juniores. Sono tecnico della Federazione Guipuzcoana (della provincia di San Sebastian, Paesi Baschi, ndr) e porto in giro i ragazzi a correre».
Ci vediamo alla Vuelta?
«Sicuro».