Carlo Berti tornò a casa a piedi. Fante d’assalto, guardiano e responsabile del faro di Capodistria, prelevato dalle SS e deportato nel lager di Flossenburg, a metà strada fra Praga e Norimberga, tornò a casa dopo 22 giorni a piedi fino al confine con l’Italia e poi con qualche passaggio in treno e camion. Quando apparve nel cortile di casa, era un altro. Pesava 38 kg di meno. E sua moglie, molto per l’emozione e molto per l’impressione, svenne.
Era un altro, Carlo Berti. Non sorrideva più, non parlava più. Come se avesse perduto la voglia di vivere. Finché 33 anni dopo, un pomeriggio di metà maggio del 1978, nel giorno in cui il Giro d’Italia passava dalle parti di casa, guardò suo nipote Alessio Stefano negli occhi e gli disse di sedersi, che gli avrebbe raccontato di quella volta che aveva visto Coppi. Chi? Coppi. Fausto Coppi. Il Campionissimo. E in “Uomini forti, uomini fragili su strade maledette”, il nipote svela la storia.
“La sera del primo giugno del 1950, nonno Carlo aveva saputo del passaggio del Giro al bar del paese. Del resto, lui seguiva solo il pugilato, ma gli amici gli proposero di andare l’indomani a vedere un passaggio della carovana del Giro d’Italia. Ci sarebbero andati in bicicletta, tanto più che il giorno successivo, appunto, ricorreva la festa della Repubblica. La tappa partiva da Vicenza per arrivare a Bolzano passando per Bassano del Grappa e il gruppo di amici programmò di posizionarsi in zona Primolano. Una sgambata di una cinquantina di chilometri, una bottiglia di vino a testa, salami, formaggio, tanto entusiasmo e giro organizzato”.
Coppi era allo zenith della sua carriera. Aveva già vinto tutto. Avrebbe potuto continuare a farlo, non solo in quel 1950, ma ancora, ma sempre, per sempre, perché sembrava invincibile.
“Ore 5 del mattino, nonno Carlo e altri cinque suoi amici, capitanati da Gino Francia, detto ‘Messiè’, partono da Onara di Tombolo in direzione Primolano per vedere il passaggio del Giro d’Italia e fare un pic-nic all’aria aperta, in collina”. Di più: “Otto bottiglie di Clinto, quattro salami, mezzo chilo di formaggio Asiago e tanta voglia di stare insieme”. Ancora di più: “A fine giornata il vino non bastò e ne comprarono altre quattro bocce da un venditore ambulante che passò di lì con un carrettino”. Hugo Koblet in maglia rosa, Coppi quarto a 3’38”, in fuga il solito irrequieto triestino Guido De Santi. Sulle scale di Primolano, quattro curve secche, i tornanti in pavè, ecco il gruppo, “sullo spiano hanno già preso una certa velocità quando, proprio davanti a nonno Carlo e a Messiè, un corridore cade rovinosamente a terra. Nonno Carlo fa un balzo di 5 metri e tenta di aiutarlo ad alzarsi, ma non ha il coraggio di toccarlo, quello sembra essere svenuto. Subito dopo, arriva l’ammiraglia del direttore di corsa Giuseppe Ambrosini con il dottor Campi. ‘E’ caduto Coppi’, gridano tutti”. Per Coppi una triplice frattura del bacino, a Bartali la tappa, a Koblet il Giro. Al nonno Carlo la storia ai propri piedi. E al nipote Alessio Stefano quel racconto.
Quel racconto ha cambiato la vita al giovane – oggi non più giovane – Berti. Si è appassionato di ciclismo, è uno dei ciclostorici più convinti e coinvolti, scrive per periodici e blog, è l’autore di soggetti teatrali e – appunto – di questo libro pubblicato dalle Edizioni Bertato (400 pagine, 15 euro). Dove non c’è una trama, non c’è una linea, non c’è un progetto se non quello di raccogliere e tramandare storie a pedali (e non a caso Giancarlo Brocci, nell’introduzione, lo definisce uno “Zibaldone”). Si comincia con Sante Pollastri, il bandito - amico no, ma conoscente sì - di Costante Girardengo, e si conclude con le Tre Valli Varesine, una classica del calendario nazionale e dunque internazionale, passando attraverso le vicende di campioni come Bartali e Coppi, Anquetil e Gimondi, Taccone e Ocana, ma anche di Panizza e Beccia, o recuperando le parabole di Enrico Brusoni che conquistò un oro olimpico senza medaglia e senza titolo, o di Flavio Martini, fenomeno fra i dilettanti e inespresso fra i professionisti, o ritrovando giornate terribili come quella del Bondone al Giro del 1956, o descrivendo chilometri infernali come quelli della Parigi-Roubaix.