Il 2020 doveva essere l’anno olimpico, quello dei sogni da realizzare, invece si è trasformato in quello dei punti di domanda, degli incubi da scacciare. Elia Viviani, il nostro campione olimpico e tra i papabili portabandiera di Tokyo 2020, con la sua maglia di campione d’Europa è l’impersonificazione di una stagione in cui finora non è andato dritto nulla. Il trentunenne veronese al debutto con il Team Cofidis è finito a terra il secondo giorno di corsa al Tour Down Under, poi ha dovuto cambiare i suoi programmi per la morte del sultano dell’Oman e il conseguente annullamento del Tour per lutto, è arrivato ai mondiali su pista senza vittorie e senza la confidenza di cui aveva bisogno. Nonostante tutto era pronto e fiducioso per gli appuntamenti che lo aspettavano su strada in primavera, a partire da quel “pensiero stupendo” della Milano-Sanremo che ci ha raccontato sullo scorso numero di tuttoBICI. A scombussolare i suoi piani e quelli di tutto il mondo è arrivato il coronavirus, una sfida globale, che - come solo le guerre erano riuscite prima d’ora - hanno portato al rinvio al 2021 dei Giochi Olimpici. Elia però, che tante volte ha portato in trionfo la maglia azzurra, da buon ciclista sa che una squadra unita come è oggi il nostro Paese può sconfiggere qualsiasi rivale ed è l’emblema perfetto di una Italia che si sta dannando per tagliare il traguardo a braccia alzate.
Come stai?
«Sono stato a Monaco cinque giorni dopo essere rientrato dalla Parigi-Nizza, ma da lunedì 16 marzo con Elena siamo tornati a Udine, vicino alla sua famiglia. Mi sono concesso una settimana di stop, per recuperare le energie, soprattutto a livello mentale, anche considerato che il ritorno alle corse è distante. Ho condiviso la decisione di ACCPI e FCI di fermare gli allenamenti dei professionisti per dare un segnale a chi a metà marzo, nel pieno dell’emergenza, non aveva ancora compreso la gravità della situazione. Restare a casa, noi per primi, è sicuramente stato più efficace che dirlo e basta. La storia degli insulti ai corridori mi rattrista, purtroppo gli incivili ci saranno sempre».
Mentalmente come stai affrontando questa situazione? Uno programma tutto nel dettaglio, va in galleria del vento a provare i materiali, studia ogni minimo particolare, si allena duramente e dall’oggi al domani si ferma il mondo...
«Non è facile, ci sta che qualcosa possa fermare la stagione, ma non sapere come e quando torneremo a correre non ci permette di riprogrammare nulla. Siamo abituati alla caduta, a confrontarci con una condizione non ottimale, ma al momento non ho idea se potrò riattaccare il numero alla schiena a una settimana o a un mese dal Tour de France e se ci sarà il Giro d’Italia, ci sono troppo punti di domanda in sospeso. Personalmente ho deciso di recuperare un attimo e poi tenere un buon livello di forma per poter accelerare quando ci verrà comunicato che potremo riprendere l’attività. Questo periodo non sarà come vivere un altro inverno perché la condizione è già alta, ma dovremo essere freschi per ripartire, perché quando succederà non ci fermeremo più fino a fine stagione».
Lo sport si è reso conto tardi della portata di questa emergenza. Come è stato correre la Parigi-Nizza?
«Strano. Dal km 0 era tutto normale: guardi chi attacca, prendi le borracce, stai concentrato sulla corsa, ma prima della partenza e agli arrivi senza pubblico si realizzava che di normale non c’era proprio nulla. “Ci sarà un motivo se le persone non escono di casa, che senso ha che noi siamo qui tutti insieme?” mi chiedevo. La sensazione di stare poco bene in gruppo c’era, sentivi un colpo di tosse e avevi paura perché non sapevi se era una banale influenza o se era il virus. A conti fatti è stato un azzardo disputarla, si è voluto mandare avanti l’evento facendoci correre un grande rischio. Nessuno di noi aveva fatto il tampone, non siamo stati tutelati. Di testa io non ero sereno, come tutti. A tappa finita chiamavo a casa per sapere come stava la nonna, contattavo mio fratello Attilio che era dall’altra parte del mondo bloccato in una stanza ad Abu Dhabi. Era surreale, la gara di per sé è stata bellissima ma anche per gli spettatori sarà stata strana».
Ti saresti mai aspettato di vivere una situazione del genere?
«No, sembra di essere in guerra. Sono andato via dalla Francia che avevano appena chiuso tutto tranne le farmacie e i supermercati, lì sono indietro rispetto a noi di almeno 10 giorni. Arrivato in Italia ho compreso che la situazione era ben peggiore di quanto immaginassi, i video che arrivano da Bergamo e Brescia sono da pelle d’oca, le testimonianze dei dottori sono scioccanti, vedere le camionette dell’esercito che portano via le salme ci ha catapultato in un incubo. Tutti i nostri ragionamenti sulle corse sono talmente piccoli...».
Com’è la tua giornata tipo in “quarantena”?
«Domenica 15 marzo ho pedalato 5 ore per svolgere dei test e capire a che punto ero, dal giorno successivo non ho più toccato la bici. Per fortuna abbiamo un po’ di lavori da fare a casa, ne abbiamo approfittato. Da lunedì 23 ho ripreso con i rulli. Trascorro il tempo con la “regina della casa” Elena, mettendo le mani sulle bici in garage, facendo brevi passeggiate con il nostro bulldog Attila, concedendoci qualche acquisto online con consegna a casa, musica, Netflix e relax. Quando mi sveglio svolgo esercizi a corpo libero, poi mi godo la colazione, da fare con calma visto che non c’è la fretta per uscire in bici, quindi affronto in genere due sessioni di rulli al giorno. Grazie ad Elite sono attrezzato per avere tutto il necessario: dai rulli liberi per lavorare sulla cadenza con la bici da pista al ciclomulino per simulare le uscite su strada e divertirmi un po’ con Zwift. Svolgo una media di due ore al giorno, fino a due sessioni di un’ora e mezza per un totale di tre ore. Sui rulli si fanno lavori più specifici, quindi non serve esagerare. Per finire non può mancare lo stretching. La vita da quarantena ci permette di fare ancora di più gli atleti, di concentrarci davvero sull’allenamento e il recupero, non avendo attività extra da svolgere».
Anche se può sembrare fuori luogo, parliamo di come è stata la stagione finora.
«Nonostante tutto è giusto pensare a quello che è stato e sarà, almeno io ci penso. Non è stato un inizio facile, non tanto per la condizione ma a livello di testa. Non vincere mi pesa, ormai l’ho appurato. Non riuscire a sbloccarmi diventa logorante, ne ho ragionato con i preparatori: i valori erano buoni, alla Paris-Nice quando ha vinto Nizzolo ho dormito nei ventagli, quando ha vinto Bonifazio non sono partito anche se ero ben messo, ho avuto più un blocco mentale che altro, come era accaduto al Giro un anno fa... Ci sto lavorando, questa pausa forzata mi servirà a resettare la centralina. Non deve essere una giustificazione, ma l’inverno scorso per me è stato pesante. Entrando a fare parte di una nuova realtà c’era tanto lavoro da sbrigare, la Cofidis mi ha scelto come leader anche per far crescere il progetto e io sono stato partecipe alle riunioni, ai confronti sui materiali, allo studio dei particolari della bici e dell’abbigliamento. La caduta ha “azzerato” la trasferta australiana e compromesso gli appuntamenti seguenti, ma non c’è da allarmarsi. Sappiamo che dobbiamo lavorare ancora tanto, anche per migliorare il treno per le volate con Consonni, Sabatini e gli altri vagoni, ma la voglia di fare non ci manca. Troveremo il feeling perfetto».
Dopo il mondiale di pista avevi detto che in vista di Tokyo avresi dovuto correre di più.
«Esatto. Il nono posto colto nell’Omnium non mi soddisfa (è stato 7° nella madison con Consonni, ndr), ma non sono arrivato a quell’appuntamento con la preparazione adeguata e altri big sono arrivati dietro in classifica. Il francese Benjamin Thomas ha dimostrato di essere il più forte, io ho capito che anche per le prove di gruppo devo lavorare più nello specifico, non posso saltare dalla bici da strada a quella da pista e pensare di poter lottare con gli specialisti. Analizzati i file delle prestazioni mondiali, dovrò simulare le fatiche delle varie prove. Nello scratch, per esempio, lo sforzo è di dieci minuti con tot accelerazioni, mentre nell’eliminazione ogni 30-40” ci vuole una volata. Abbiamo capito che in vista dei Giochi servirà un blocco di lavori specifici e affronterò diverse prove su pista. Marco (il CT della pista Villa, ndr) vuole che io mi misuri con questi sforzi in gara e non solo con le simulazioni dietro moto».
Se ne parlerà nel 2021, visto che i Giochi sono stati rinviati ufficialmente.
«Rimandare le Olimpiadi al 2021 è stata la decisione migliore per me. Oggi siamo tutti alle prese con un problema molto più grande e sebbene agosto sembri ancora molto lontano, la sicurezza di un evento così grande è stata molto difficile. La notizia mi ha tolto un peso, perché stavamo vivendo nell’incertezza. Cari Giochi, ci vediamo nel 2021».
Anche se si disputeranno nel 2021, ai Giochi sarai impegnato in tre specialità: inseguimento a squadre, americana e omnium. Riesci a metterle in una graduatoria?
«A livello personale ripetere l’oro nell’Omnium è la cosa più importante; quello che mi darebbe più soddisfazione però sarebbe salire sul podio con il quartetto, perché darebbe senso a tutto il lavoro affrontato da ogni ragazzo della Nazionale in questi anni, al gioco di squadra e al progetto voluto da Villa. Sarebbe una soddisfazione enorme, una gratificazione più che meritata soprattutto per Marco. L’Australia potrebbe sorprenderci, ma i mondiali hanno detto che l’Italia è l’unica Nazione che non sta permettendo alla Danimarca di presentarsi al via già con l’oro al collo assicurato».
Sei tra i papabili portabandiera... Nessun ciclista ha mai avuto questo onore.
«Sto cercando di capirci di più, ho dichiarato che sarei disposto a fare dei sacrifici in questa direzione, magari anche a saltare delle gare su strada, se ci fossero appuntamenti a cui andare. Non partecipando alla prova in linea, che si disputa proprio il giorno dopo la cerimonia d’apertura, potrei benissimo inserire questo stupendo impegno nel mio programma gare (nel programma olimpico le competizioni su pista sono in programma nella seconda settimana dei Giochi, ndr). L’Olimpiade è qualcosa che va al di là del ciclismo, io farei di tutto per realizzare questo sogno, vedremo cosa deciderà il CONI, e come saranno i nuovi programmi. Che si sia scelto di far sfilare un uomo e una donna per Nazione apre più chance, anche per me, ed è un segnale dall’importante significato».
da tuttoBICI di aprile