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PETER SAGAN, 30 ANNI AL TOP
di Giulia De Maio | 31/03/2020 | 08:00

In Argentina, alla Vuelta a San Juan, abbiamo incontrato Peter Sagan per una lunga chiacchierata per il numero di marzo di tuttoBICI: ovviamente è stata fatta prima del deflagare dell'emergenza Covid-19, ma ve la proponiamo perché - come sempre - il campione slovacco non dice mai cose scontate.

In dieci anni ha cambiato i confini della bici, passando da promessa di talento a titolare di un’industria fiorente e ramificata. Nel 2010 il debutto tra i prof, un decennio dopo è un personaggio globale da milioni di euro come Va­len­tino Rossi o Roger Federer, Fe­derica Pel­legrini o Lindsey Vonn, co­nosciuto in ogni angolo del pianeta. Basta il no­me: Peter Sagan. Non più “solo” un campione ma un marchio vincente, che con un semplice post sui social è in grado di raggiungere 5 mi­lioni di seguaci. È il ciclista più pagato al mondo: il suo contratto con la Bora-Hansgrohe vale tra i cinque e i sei mi­lioni di euro a stagione, cifra che va ad aumentare di un bel 20% grazie agli accordi con brand come 100%, Sport­ful, Specia­lized, Osmo e Gopro.
L’epoca di Peter Sagan è cominciata all’alba del 2010 a Treviso, dopo chilometri e chilometri macinati tra cross e mtb, soprattutto in Slovacchia, a ruota del fratello Juraj. Il 19 gennaio esordiva al Tour Down Under in maglia Li­quigas, il 21 conquistava il primo po­dio di tappa (terzo) a cinque giorni dal suo ventesimo compleanno.

Lo abbiamo incontrato 10 anni dopo, quando di candeline ne ha spente 30, al debutto stagionale alla Vuelta a San Juan, in Argentina. Prima che l’amico - massaggiatore Maros gli tirasse la torta in faccia e del meritato brindisi con la sua “band of brothers” il ragazzo di Zi­li­na ha ripercorso con noi le stagioni pas­sate nella massima categoria. Gli sono valse tre Mondiali di fila (nessun altro ci era mai riuscito), il titolo di Campione Euro­peo, un Fiandre, una Roubaix, tre Gand, sette maglie verdi al Tour (altro record di cui è detentore), per un totale di 113 successi. In questo decennio è cresciuto e cambiato, ma resta il ragazzo di sempre. In­telligente, con la battuta pronta e una sensibilità fuori dal comune. Il più for­te in sella, ma vicino ai più deboli e soprattutto ai bambini nella vita di tutti i giorni. Basta il nome: Peter Sagan.

Peter, a 30 anni come si sente?
«Più che contento perché ho ancora (spero) tanta strada davanti a me e guardandomi indietro non ho alcun rimpianto. A 20 anni guardavo mio fratello maggiore Milan, che ha 10 anni più di me, e speravo di diventare come lui. Per quanto riguarda la mia vita privata e quella professionale sono davvero felice, le aspettative sono state superate dalla realtà. Sono stato bravo e fortunato. Questi ultimi 10 anni sono vo­lati, ma è normale. In corsa sei ore sotto la pioggia sembrano non passare mai, ma tagliata la linea del traguardo dici: “ok, anche questa è fatta” e sei già con la testa alla prossima. Il tempo scorre davvero veloce e io non sono uno che rimugina su quanto accade. Il traguardo di cui vado più fiero? Senza dubbio, mio figlio Marlon»

Nel giorno del tuo compleanno è mancata una leggenda dello sport: Kobe Bryant.
«L’epilogo della sua storia mi ha rattristato molto, mi sono chiesto perché il suo incidente sia capitato proprio il giorno del mio compleanno, ma queste sono domande inutili, che non possono avere risposta. La vita è così, ogni giorno succedono cose terribili e bellissime, è imprevedibile. Meglio non pensarci e godersi ogni giorno appieno come cerco di fare io».

Come farai a Budapest il prossimo 9 mag­­gio al via del tuo primo Giro d’I­ta­lia.
«Ho voglia di scoprire la corsa rosa, sapete che sono molto legato al vostro Paese. Non so perché, ma in tanti mi chiedono se ho intenzione di portare a termine la corsa. Se sarò in grado, la risposta ovviamente è sì. Io quando mi metto il numero sulla schiena qualcosa mi invento sempre. In tre settimane può succedere di tutto, se arriverò a Mi­lano non dipenderà solo dalla mia volontà. Il doppio impegno Giro-Tour non mi spaventa: provare a portare a casa le classifiche a punti in entrambe le corse è una bella sfida. Fare l’accoppiata maglia ciclamino e verde non sa­rebbe niente male».

Ti sei dato alle Gran Fondo, che ne pensi della tappa che propone il percorso della Nove Colli?
«Mi piace l’idea che gli amatori possano poi confrontare i loro dati e le loro prestazioni con le nostre. Ormai con la tecnologia, i social e tutte le varie ap­plicazioni tutto è tracciabile e confrontabile. Detto questo, se non pedali per mestiere è giusto anche che ti godi l’esperienza senza troppo stress, approfittando delle bellezze e delle bontà che offre la località in cui ti trovi. L’esaspe­razione non ha senso nemmeno nel professionismo, figurarsi tra chi va in bici per passione. Io per esempio non ho mai usato la fascia cardio in corsa, ho il computerino ma in gara non lo guardo praticamente mai. I dati sono importanti in allenamento e, magari, per essere analizzati dopo la corsa ma non durante. Nelle fasi cruciali non de­vi guardare quanti watt sprigioni ma pe­dalare per stare con i primi».

Prima volta al Giro, ma c’è anche da vincere per la prima volta la Sanremo.
«Per me è un sogno, un obiettivo primario. Ci sono già arrivato più volte vicinissimo (due volte secondo, tre vol­te quarto, ndr) ma mi è sempre andata storta. È una corsa pazzesca, che per un niente si può vincere o perdere. È adrenalina allo stato puro, chiaramente solo il finale, anche se prima bisogna saperla correre con attenzione, senza gettare via energie preziose. È una corsa di quasi 300 km, la più lunga al mondo, che può arrivare anche ad oltre sette ore di corsa. Insomma, è qualcosa di pazzesco. Per questo mi piacerebbe farla mia, ma non ci devo pensare: guai a farla diventare un’ossessione».

Se la vincessi saresti disposto a tornare a casa in bicicletta?
«Abitando a Montecarlo non sarebbe un grosso sforzo (sorride sornione, ndr). Mi chiedete a cosa rinuncerei per la classica di Primavera? A me le ri­nunce non piacciono molto, già devo stare attento con il mangiare. Però se dovessi vincerla, potrei pensare a qualcosa di bello. Generalmente mi faccio guidare dall’istinto. Un anno fa mi so­no ammalato prima della Tirreno, alle Classiche non mi sono presentato al cento per cento, ma non è stato un dramma e non sento di dovermi prendere alcuna rivincita. È semplicemente successo, ho fatto del mio meglio, è andata come è andata. A differenza di quanto pensano in Belgio, la stagione non dura solo tre mesi e poi, come ho detto io, vivo il momento e volto pagina in fretta».

Questo ciclismo hai sempre detto che ti annoia un po’...
«E lo confermo. Capisco che i chilometri devono essere fatti perché devono emergere la forza e la resistenza, ma spesso le corse hanno un canovaccio ri­petitivo, scontato, per questo io spesso azzardo e provo a fare qualcosa di nuovo: per battere la noia, prima an­cora dei miei avversari. È tanto che non vedo una corsa in tv. I primi 100-150 km delle classiche come il Fiandre così come le tappe lunghe dei grandi giri, con il vento contro, quando non succede nulla possono apparire noiosi, ma c’è chi ha tempo per stare ore sul di­vano e schiacciare un pisolino in vi­sta del finale più movimentato. Da spettatore e da corridore preferisco le tappe brevi, di 130 chilometri, su e giù, così sicuramente l’andamento della cor­sa è più interessante».

La nuova generazione scalpita per farsi spazio. Che idea ti sei fatto di Remco Eve­nepoel?
«Ha dieci anni meno di me e ha già di­mostrato alla prima stagione nella massima categoria di essere capace di grandi cose, avrà un futuro brillante. Sarà il nuovo Sagan? No, sarà sempre Remco mentre io continuo a fare Peter. Ab­biamo caratteristiche diverse. Re­stare ad alti livelli, dopo dieci anni come quelli che ho vissuto io, è difficile. So­no contento che i giovani di talento incalzino, è stimolante per me confrontarmi con loro. Io rispetto ai primi anni sono più concentrato sulle corse im­portanti. A differenza a quelle che facevo una volta mi prendo qual­che pausa durante l’anno per ri­ca­ricare le pi­le. Non si può pensare di vincere da febbraio a no­vem­bre e ogni anno è di­verso. Lo scorso in­ver­no mi sono allenato so­prat­tut­to a Monaco, ho mes­­so le basi. Dopo l’Argen­ti­na, a febbraio sono sta­to in altura in Co­lom­bia, a Medellin, per svolgere lavori di intensità. Ri­spetto al 2019 non sono an­dato in Australia, ma per il resto non ho fatto chissà quali cambiamenti di preparazione»

Dopo aver vinto così tanto, in cosa trovi la motivazione per continuare ad affrontare i sacrifici che impone la vita da corridore?
«Ho scelto questo sport, faccio quello che mi piace, sono soddisfatto di quanto ho vinto finora, ma non appagato. Se sono ancora in sella alla mia bici è perché ho ancora voglia di vincere, chiaramente è sempre più difficile perché i giovani stanno crescendo e il ciclismo cambia, anno dopo anno. Già solo rispetto a 10 anni fa, quando ho iniziato io, c’è più anarchia in corsa, sempre più tecnologia e cura dello stile di vita. A mio avviso è più difficile controllare l’andamento della gara, sempre più squadre mandano uomini in fuga, poi non vogliono lavorare anche se hanno capitani forti. Detengo parecchi record, ma ne inseguo altri. Dopo il primo mondiale pensavo fosse abbastanza, invece ne è arrivato un secondo e ancora un terzo, una motivazione che mi spinge a continuare è vincere la quarta maglia iridata. Nel 2020 il percorso non è adatto alle mie caratteristiche, nel 2021 sì»

2020, anno olimpico.
«Non mi sono pentito di aver disputato la gara di mtb a Rio. Nel 2016 ho avuto il tempo per affrontare questo tipo di sfida, ora con il programma di quest’anno per me sarebbe impossibile qualificarmi nel fuoristrada. A Tokyo correrò la prova su strada, anche se il percorso è da scalatori. La mtb per me resta un divertimento e un buon allenamento. Sono nato come biker, da quando avevo 9 anni vado per i boschi, in America ho trovato dei bei single track per allenarmi. Mi aiuta anche per la strada, ma non è detto che lo stesso di­scorso valga per tutti. Chi non è tanto pratico del fuoristrada rischia di farsi male e di non trarne beneficio»

Guardando al futuro cosa vedi?
«Non penso di poter reggere questi ritmi ancora per molto (sorride, ndr). Quando smetterò mi piacerebbe creare un circuito di 12 Gran Fondo all’anno, una al mese, per pedalare con i tifosi che ho la fortuna di avere sparsi nei cinque continenti. Adesso, compatibilmente con gli impegni agonistici, siamo arrivati a quota quattro: Colombia, Sta­ti Uniti, Panama, Argentina, più quella con le gravel nello Utah, per un totale di circa 10.000 iscritti a stagione (eventi non competitivi legati sempre ad aste e ce­ne per raccogliere fondi, che in media superano i 100.000 dollari ogni volta; Peter ha il cuore grande e tante delle cose che fa per beneficenza non vuole che si pubblicizzino, ndr). La mia accademia di ciclismo a Zilina, per iniziare i ragazzi alla bici, è sempre attiva: gli iscritti sono arrivati a 108 tra i 5 e i 18 anni. Ho anche altre idee in te­sta, ma è presto per parlarne. Ancora per qualche stagione spero di divertirmi e di­vertirvi in sella alla mia bici con un numero attaccato alla schiena».
Lo farà, ne siamo certi. Basta il nome: Peter Sagan.

da tuttoBICI di marzo

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