Arriviamo terzi sul podio, su questo amato palcoscenico online, dopo gli amici Pastonesi e Viberti, ma a scrivere di GPO pure in ritardo è sempre uno scrivere inevitabile, pure per gaudio.
Perchè c'è ancora davvero tutto, TUTTO, pirotecnico e mai pleonastico, vulcanico e non vesuviano, culturale e non accademico, torinese e non juventino, tanto per elevare l’indice di gradimento, tutto Ormezzano, tutto appunto GPO, in questo Io c’ero davvero - reportage da due virus, il Covid e il giornalismo, ed. Minerva, 2021.
Tutto Ormezzano, 85 anni come fossero poniamo 58, e noi ad arrancare stentando a ruota, il grande (grosso?, sorridiamo insieme come fossimo ancora a Napoli da ‘Mimi alla Ferrovia’) giornalista piemontese, che resta il più straordinario dei cantanti, non esili cantori, dello sport e di quanta società moderna esso sport vada permeando. Ormezzano, lui che pubblicava un tempo (2000) Non dite a mia madre che faccio il giornalista sportivo lui apprendista a Tuttosport anni ‘50, fra Carlin e Ghirelli, appena o mica appena turbato dalla mancata laurea - che pure, a Pavia, Gianni Brera gliela aveva promessa a pergamena libera -, che di questa disciplina liberale su pagina, oggi svilita dal calcio atuttelore e dalle pay Tv ha smarrito il profumo. Lui, Ormezzano, il migliore tuttora di noi, qui si racconta in vivo e in doppio, per il suo trascorso da antologia di giornalista sportivo, che sarebbe poi a noble art se avesse ancora a fronte un Berruti e le Olimpiadi del ‘60, un Clay o un Facchetti per icona, con l’antifona però della sua testimonianza forte e incredibile di afflitto, e guarito, da un Covid maggiore.
Due patologie allora, per buona sorte sua e nostra, ambedue sanate, il Covid disarcionato di barella in barella e lo sport ubiquitario e sovrano, da narrare e aver narrato, da sospirare come fosse uno sprint ancora, taumaturgico, in queste pagine che fiato non danno, ma godibilita infinita, per uno e più motivi.
Si staglia in questo florilegio l’Ormezzano massimo, il suo record di firma globe-trotter di Olimpiadi invernali/estivi, 25 dice lui. Ed impallidisce un Europeo mancato, pure quello azzurrissimo di calcio 2021, fuori onda anche i trionfi di Tokyo 2020, al cospetto di un siffatto patrimonio planetario e tuttopertuttiglisport che va da Lillehammer a Città del Messico, da Monaco a un'altra Tokyo, da Mosca a Seul. E si illumina, nei ritagli di giornale prescelti una volta ancora totalmente - al netto di una biobibliografia personale da ‘Pulitzer’, trenta libri più o meno, la direzione di Tuttosport, la collaborazione mistica a Famiglia Cristiana e mitica a La Stampa -, quel ruolo suo di testimone affabile e mai giudice di Michel Platini e Enzo Ferrari, di Giorgio Meroni e Giampiero Boniperti, di Gastone Nencini e Diego Armando Maradona, di Bartali e Coppi, di maestri esemplari come Zavoli e Raschi e Mura, sorridente senza essere parziale. Ed è da non perdere primissimamente l’incontro struggente con Abebe Bikila, la medaglia d’oro nella maratona alle Olimpiadi di Roma ‘60, quella stretta di mano alla presenza algida di Haile Selassie, il despota Negus, con un Bikila ridotto chissà mai perché e da chi su una sedia a rotelle, primi anni ‘70.
E maestosi, una griffe, per una architrave romantica dello sport coniugato al personale, lui che il padre e la madre volevano ingegnere, quei due titoli in prima pagina, firmati come direttore di Tuttosport. Quel ‘Toro, lassù qualcuno ti ama’, dedicato ‘ventisette anni e 90 minuti dopo Superga’ al nuovo scudetto del suo amato Torino, a maggio 1976, con un rettangolo di fianco ‘Signori (e Signora) ecco il Torino’: sberleffo folgorante alla Totò. E ancora prima, nel 1969, e per noi ciclofili e olandisti ultralaureati, perfido e lancinante, quel ‘L’uomo va sulla Luna, ma il Mondiale lo vince Ottenbros’, vale a dire un corridore olandese sconosciuto... Ma per noi senza eguali nel tempo, e mica per una sola annualità, Ottenbros, e mica solo per la iniziale identica. Come quell’Ormezzano incommensurabile, in compagnia di ogni sport al comando.