Sono giorni frenetici per Sofia Bertizzolo che è fresca di debutto stagionale con il 21° posto alla Het Nieuwsblad. La ventitreenne veneta, in forza al team Liv Racing e al gruppo sportivo Fiamme Oro, negli scorsi anni ha dimostrato di poter dare filo da torcere alle più forti atlete in gruppo e rimane una delle giovani più promettenti del panorama italiano. Ci sono tanti progetti nella mente di Sofia che pedala a testa bassa dando tutta se stessa, insegue la vittoria mettendoci impegno e dedizione, ama pedalare e non è impaurita dalla fatica. Pensa in grande e non rinuncia ad ammetterlo, cresce cercando di capire la sua strada, intanto si guarda intorno e sfrutta ogni occasione per imparare.
Come ti presenti al via della stagione 2021?
«Ho passato un ottimo inverno e ho portato avanti una preparazione di cui mi ritengo molto soddisfatta. A causa del covid siamo riusciti a fare soltanto un ritiro con la squadra e quindi ho dovuto portare avanti gli allenamenti a casa. Viste le basse temperature che hanno caratterizzato le mie zone, ho scelto di allenarmi un po’ al coperto, al velodromo, ritengo che un allenamento in pista sia fondamentale perché insegna l’esplosività e ad avere una cadenza di pedalata molto buona».
Durante l’inverno ti sei dedicata anche al ciclocross, una disciplina molto affascinante, ma per te un po’ sconosciuta. Che esperienza è stata?
«Ho scelto di dedicarmi al fango per sopperire alla chiusura delle palestre e per provare un diverso tipo di disciplina e allenamento. È stato un po’ come andare all’arrembaggio perché da giovane non l’ho mai praticato e quindi non avevo una base, inoltre devo riconoscere che occorre essere attrezzati. La mia squadra è olandese e quindi per loro è praticamente scontato fare ciclocross nei mesi invernali, fortunatamente mi hanno fornito la bici e qualche indicazione, peccato che ho avuto soltanto una gara per mettermi veramente alla prova, visto che la pandemia ha colpito ancora una volta. Grazie a questa scoperta mi si è aperto veramente un mondo, dalla televisione tutto sembra facile, ma una volta che si prova a fare dei tratti di corsa caricandosi la bici sulla spalle ci si rende conto di quanto sia complicato, occorrono tecnica e preparazione. Diciamo che quest’anno è stato solo un assaggio, sicuramente l’inverno prossimo tenterò nuovamente».
Ora però è tempo di ripartire con la strada…
«Dopo la Omloop Het Nieuwsblad proseguirò con la Strade Bianche. Nella prima parte di stagione mi dedicherò alle classiche delle pietre e alle Ardenne e poi, in base a come uscirò dalla campagna del Nord, deciderò su quali corse del mese di maggio focalizzarmi per riuscire ad arrivare al Giro Rosa al massimo della forma»
E se dovessi porti un obiettivo?
«La stagione scorsa purtroppo ci ha insegnato che è impossibile pianificare e quindi bisogna essere sempre pronti. Io parto con l’idea che ogni corsa sia come il campionato del mondo, devo essere motivata, pedalo a testa bassa e do tutta me stessa. Inseguo la vittoria, ma al contempo cerco di migliorarmi, sono tante le corse che mi piacciono, ma quelle italiane hanno un posto speciale nel mio cuore, sono le più belle ma anche le più dure, in particolare il Trofeo Binda».
Hai iniziato la tua carriera puntando alle gare a tappe, ma ora ti sei focalizzata sulle corse di un giorno. Hai finalmente trovato la tua strada?
«In realtà devo ancora capirlo. Nei primi anni le corse di un giorno mi sembravano infinite, mi facevano un po’ paura e così, sfruttando anche il mio veloce recupero, preferivo concentrarmi sulle gare a tappe con molte frazioni, ma più brevi. Crescendo sono molto cambiata come atleta, ho imparato a sopportare le lunghe distanze e sono migliorata nelle corse di un giorno in cui vado addirittura meglio. Sinceramente non so cosa mi porterà il futuro, mi definisco un’atleta completa che però non è ancora arrivata da nessuna parte. Sento che devo crescere ancora e che ho davvero un grande margine di miglioramento, ammetto che però non mi sarei mai immaginata di poter andare bene sul pavè, proprio io che sono tutt’altro che una ragazzona da 1.80 m; io sulle pietre rischio quasi di rimbalzare».
L’anno scorso hai corso al fianco di Marianne Vos, un’atleta completa che ha praticamente vinto tutto. Senti di aver imparato qualcosa da lei?
«Avere Marianne come capitana è stata un’esperienza fantastica che sicuramente mi ha fatto crescere, mi ha aiutato a capire meglio come muovermi in gruppo e avere sempre la posizione migliore. È una vera campionessa, ormai fa tutto in modo naturale, occorre letteralmente rubare con gli occhi dalle sue azioni. In squadra sentiremo la sua mancanza».
Ormai da tanti anni militi nelle Fiamme Oro: un porto sicuro o una limitazione?
«Militare nelle Fiamme Oro è assolutamente una sicurezza che mi permette di portare avanti questa avventura nel migliore dei modi, così posso focalizzarmi su quello che faccio sapendo che dietro di me ho una struttura che mi sostiene ed effettivamente mi mantiene. Purtroppo il ciclismo femminile non dà una garanzia, è come un lavoro a metà che effettivamente non versa i contributi per le malattie, la gravidanza e tutto il resto. Le Fiamme Oro sono come una famiglia, un sostegno fondamentale, l’unica condizione che pongono è correre i campionati italiani con la loro casacca perché purtroppo per il resto non sono in grado di darci tutto il materiale che ci serve e dobbiamo necessariamente appoggiarci ad un’altra squadra. Quest’anno l’Uci avrebbe dovuto approvare una riforma a proposito dei gruppi sportivi militari, ma il covid ha bloccato tutto».
Negli scorsi mesi la Francia ha riconosciuto alle sue atlete lo status di professioniste, una conquista importante, ma pare non essere sufficiente…
«Lo status di professioniste è una grande conquista, ma vivere di questo è tutt’altra cosa, sono veramente poche le atlete che fanno del ciclismo un lavoro stabile e redditizio. Da quando sono diventata elite nel 2016 sono cambiate molte cose, ci sono sempre più squadre, molte si stanno potenziando, gli organizzatori si sono impegnati a creare per noi delle nuove competizioni che spesso condividiamo con gli uomini e fortunatamente abbiano più visibilità sulla stampa ed in televisione, ma tutto questo non è abbastanza. Alla fine il ciclismo, come tutti gli sport, è un grande mercato dove un soggetto investe e vuole dei ricavi, è importante trovare qualcuno che creda in noi, che accetti la scommessa, ma anche che il nostro sport venga conosciuto dal pubblico, alla fine pedaliamo come fanno gli uomini e almeno per qualche volta ci meriteremmo almeno la metà della visibilità che hanno loro».
Esiste una soluzione al problema?
«Alla fine è come un circolo vizioso: se veniamo poco conosciute, l’imprenditore non investe in quanto non ha un ritorno e quindi di conseguenza ci ritroviamo con pochi finanziamenti e senza la possibilità di una squadra forte e del materiale di qualità, quindi non riusciamo mai ad emergere. Secondo me una delle chiavi è “rubare” in qualche modo il personale dai team maschili, avere figure esperte come direttori sportivi, massaggiatori e meccanici che contribuiscano a dare delle direttive efficaci. Questa è proprio la base della squadra che deve essere molto solida, per poi fare in modo che le atlete crescano bene ed ottengano dei risultati. Se invece le ragazze devono arrangiarsi a fare tutto da sole, la situazione diventa molto complicata».
Tante piccole conquiste, ma la strada sembra essere ancora lunga…
«Con gli anni stiamo accumulando dei piccoli tasselli, qualcosa si sta muovendo, ma è solo una minuscola parte dell’enorme macchina. A noi non rimane altro che pedalare e dare tutte noi stesse, il cambiamento è anche nelle nostre mani».