Pieter Weening ha detto stop. Dopo 17 stagioni da professionista e 13 vittorie individuali, tra cui una tappa al Tour de France e due al Giro d'Italia, alla soglia dei 40 anni, l’olandese ha deciso di chiudere la sua carriera. Weening è approdato alla Trek-Segafredo a giugno ma a causa della pandemia de gli gli infortuni, la sua stagione non è andata come sperava.
Ci siamo seduti con Pieter per parlare della sua carriera, della sua decisione di ritirarsi e di cosa lo attende domani.
«Per quasi 20 anni ho svolto il lavoro che sognavo e amavo. Mi sono divertito in ogni stagione in cui ho corso e ne sono felice. Ma nelle ultime settimane mi sono detto serenamente che è arrivato il momento di smettere».
Se dovessimo trovare una definizione unica per te, diremmo che sei un professionista concreto.
«Grazie. Sì, posso dire di essere contento di quello che ho ottenuto. Ho sempre corso in grandi squadre così come in fantastici gruppi di persone. Penso che questa sia stata una motivazione chiave per me. Ho sempre sentito la spinta dello spirito di squadra, del perseguire un obiettivo comune. Quindi, permettetemi di ringraziare tutte le squadre che mi hanno consentito di fare ciò che amavo e tutte le persone che mi hanno supportato in questa parte importante della mia vita, facendomi crescere come uomo oltre che come atleta».
Ma cosa ti ha spinto a fare il ciclista?
«Innanzitutto l'amore per la bici, che ha preceduto la passione per il ciclismo. Secondo, lo stile di vita: non ordinario, quasi matto, un po' gitano, sempre con la valigia in mano. Grazie allo spirito competitivo, la vita di uno sportivo è fatta di adrenalina e sana tensione. Allo stesso tempo, quando si è a casa, si entra in una sorta di mood zen per riprendersi ed essere pronti per la sfida successiva. È completamente diverso dalla vita della stragrande maggioranza delle persone, ed è questo che mi ha affascinato così tanto».
Ma di continuare ancora un anno proprio non ci hai pensato?
«Quando sono entrato in contatto con la Trek-Segafredo a febbraio, dopo aver parlato con Luca Guercilena e Steven de Jongh, mi sono detto “vediamo come va il Giro e poi decidiamo”. A causa del Covid-19, la mia stagione è durata solo tre mesi e la corsa rosa ha assunto un significato ancora maggiore. Durante il camp sulle Dolomiti con il gruppo del Giro ero molto motivato per la sfida e per supportare Vincenzo. Ma poi è arrivata la delusione. Una stupida caduta nella tappa numero quattro - ancora mi fa arrabbiare quando ci penso - ha lasciato un segno pesante. Il giorno dopo mi sono dovuto ritirare dalla gara e sono tornato a casa con i postumi di una commozione cerebrale. Pensavo di riprendermi per la Vuelta a España, ma i medici hanno imposto il riposo assoluto. A quel punto ho capito che era giunto il momento: non è stato il corpo a dirmi di fermarmi, ma la mente».
Hai qualche rimpianto?
«Non aver potuto correre il Giro che avrei voluto mi ha deluso, ma non ho rimpianti. Porto con me tanti bei ricordi del ciclismo. La vittoria al Tour nel 2005 e quelle al Giro nel 2011 e 2014, con quattro giorni in Maglia Rosa, sono stati i momenti più belli. Ma ricordo con piacere anche le cronometro a squadre del Giro a Belfast nel 2014 e quella del 2015 con la Orica, entrambe straordinarie prestazioni di squadra».
Ti vedremo ancora nel mondo del ciclismo?
«Sperao di sì, amo questo sport e questo mondo, ma non nell'immediato futuro. Per ora, dopo quasi 20 anni di viaggi, voglio solo riposarmi e godermi la vita a casa a Neerharen, con mia moglie e i nostri due figli. Ho alcune idee per il futuro, ma non è il momento di fare annunci».
Dall'alto della tua esperienza, come vedi il ciclismo di oggi?
«Molto è cambiato da quando sono diventato professionista nel 2004, specialmente negli ultimi 10 anni con l'avvento di un approccio più scientificamente fondato. Quando ho iniziato, si preparavano i grandi appuntament correndo, ora ci sono i camp di allenamento e l’altitudine, il ciclismo moderno è uno sport più controllato, con un monitoraggio continuo dei dati. Prima era quasi tutto basato sulle sensazioni: entrambi gli approcci hanno i loro pro e contro, ma non c'è dubbio che ora abbiamo uno sport professionistico più evoluto».
Un consiglio per i giovani che stanno conquistando sempre più spazio?
«Non perdano la voglia di divertirsi con la loro bici. Essere un pilota professionista ora è piuttosto stressante: come in molti aspetti della nostra vita, abbiamo a che fare con molte informazioni e input, programmi di allenamento, numeri, integratori, dieta, biomeccanica e attrezzature. Non è facile gestire tutto e, per esperienza, posso dire che non ci si abitua mai veramente a tutte queste cose. Quindi, ragazzi, prendetevi il vostro tempo. Prima di tutto, godetevi la bellezza delle corse e cercate si essere sempre più forti mentalmente. Dopo qualche anno conoscerete meglio voi stesso e che tipo di corridore siete: quello sarà il momento per concentrarvi sui dettagli».