È un fenomeno trasversale che scuote il mondo, una protesta inedita perché ad incrociare simbolicamente le braccia sono coloro che stanno dall’altra parte della barricata, o dello schermo se preferite.
È una protesta che nasce nel Regno Unito e ha contagiato federazioni sportive nazionali, enti come Fifa e Uefa, squadre e singoli atleti. È una protesta clamorosa, si chiama Social Media Boycott: dalle ore 15 del 30 aprile alle 23.59 del 3 maggio i partecipanti hanno deciso di spegnere i propri canali Facebook, Twitter e Instagram.
No, non è una protesta “contro” i social network, anzi è “a favore” di un utilizzo corretto e sempre migliore degli stessi.
«Scendiamo in campo - si legge in tanti i comunicati degli aderenti - contro gli abusi on line a tutti i protagonisti del mondo dello sport. Il messaggio forte contro ogni forma di discriminazione lanciato dall’Inghilterra è stato prontamente raccolto: la campagna mira a sollevare un tema di responsabilità collettiva da affrontare in collaborazione con le istituzioni politiche europee e con i gestori delle piattaforme di social network più diffusi e influenti in tutto il pianeta».
E ancora: «L’odio, la mancanza di rispetto verso il prossimo, la discriminazione di genere o di etnia, l’abuso verbale sono quanto di più lontano dallo spirito dello sport e per questo li vogliamo combattere».
Una campagna mondiale, una protesta globale per un problema che, come tanti, può essere risolto con un po’ di buon senso.
I followers, i lettori, i tifosi, i commentatori sono un patrimonio, una risorsa, una ricchezza per tutti, nessuno lo nega. Ma il fenomeno dell’eccesso sta assumendo proporzioni dilaganti. Ed è il momento di rispondere in maniera ferma, dura, intransigente.