Se gli eroi erano divinità decadute a uomini o uomini assurti a divinità, Bartali apparteneva a questa seconda categoria. Dell’uomo aveva tutto: la pelle segnata dal tempo, la voce bruciata dalla fatica, gli occhi parlanti e i muscoli guizzanti, la sigaretta fra le dita e il bicchiere in mano, e una bicicletta per farsi strada. Della divinità aveva la resistenza, uomo di ferro, uomo di un ferro che non arrugginiva, e nessuno sapeva, nessuno ha mai saputo dove andasse a prendere forze ed energie quando tutti gli altri ne erano rimasti raschiati e asciutti, in riserva e a secco.
Eroico era Bartali in uno sport (sport?, soltanto sport?) dove si lottava contro insidie dichiarate (distanze e altimetrie), difficoltà previste (fame e sete), aggravanti sottintese (sterrati e chiodi), tranelli probabili (passaggi a livello e incidenti meccanici), incognite ignote (pioggia, vento, neve, canicola) e ovviamente avversari affamati (povertà e miseria). Eroico era Bartali in un’epoca martirizzata da due guerre mondiali, per l’Italia anche da un’illusione politica e da una strage razziale. Eroico era Bartali in un’autodisciplina ferrea, appunto, irrobustita dagli allenamenti, collaudata dalla concorrenza, incoraggiata dalla fede. Polemizzava e pedalava, brontolava e pedalava, pregava e pedalava.
Conoscendolo, Bartali avrebbe rifiutato il grado di eroe. Per modestia, per origine, per convinzione. Più adatta la dignità di francescano, nel suo spogliarsi e privarsi, che poi è il destino degli scalatori, alleggerirsi di tutto, dalle borracce ai pensieri, perché anche quelli, soprattutto quelli, pesano, alleggerirsi da vincoli e intrallazzi, alleanze e complicità, tentazioni e peccati, e poi arrampicarsi, salire, ascendere. Ma è un eroismo, seppure involontario, anche quello di Francesco (il santo, il papa) e dei francescani (dunque anche di Bartali). O almeno così appare oggi che si evita la fatica, si dribbla la lealtà, si sottovaluta la semplicità.
Giancarlo Brocci ha scritto “Bartali l’ultimo eroico” (Minerva, 224 pagine, 16,90 euro). Stesse iniziali di nome e cognome, stesso accento e stessa terra, stesse strade e stesse passioni, tanto da incrociarsi, stimarsi e forse addirittura amarsi, ciascuno a suo modo, Bartali con occhi ancora parlanti e muscoli non più guizzanti, Brocci con le sue crociate (il Parco ciclistico del Chianti, l’Eroica, le strade bianche, un primo libro, “Bartali, il mito oscurato”, e un secondo, questo). La prima metà, una lunga rincorsa, per introdurre Gino attraverso il ciclismo del primo Novecento, la nascita del Tour de France, l’epopea dei forzati della strada, i sacrifici bestiali in sella fino a scenderne distrutti e modificati, l’esempio animalesco e leggendario di Ottavio Bottecchia. L’altra metà, una veloce discesa, ripercorre la lunga parabola bartaliana, da quando impara il mestiere a proprie spese fino a quando pedalerà per riabilitarsi da un incidente automobilistico di cui fu vittima incolpevole, attraverso salite e discese, vittorie e trionfi, storia e geografia, rarissimi ritiri o abbandoni, duelli e dualismi non solo con Coppi, e un’Italia che a ogni stagione (le stagioni del ciclismo duravano dalla Sanremo, il giorno di San Giuseppe, fino al Lombardia, ultima domenica di ottobre o perfino di novembre) possedeva altri profumi, esibiva altri paesaggi e regalava altri sogni.
Fra le gemme del libro, le fotografie dall’archivio di Walter Breveglieri. Il ritratto di pagina 8 è, di per sé, un altro libro: Gino, in bianco e nero anche nella maglia tricolore, il mento appoggiato al pugno sinistro, lo sguardo rivolto in basso a destra, capelli rughe naso pelle lana, un capolavoro. Fra i diamanti del libro, la prefazione di Sandro Picchi. Dà significato e senso al mestiere di giornalista: l’elogio di un attimo di silenzio, inatteso unico originale solenne poetico, al velodromo di Losanna, il 18 luglio 1948.