È un pugno nello stomaco. È qualcosa che va oltre lo sport e il ciclismo. Un grido di denuncia che non può restare inascoltato. Tutto si può dire tranne che l'andare in bicicleta sia pratica empia e blasfema. Eppure ci sono angoli del mondo (che poi tanto angoli non sono...) in cui alle donne le due ruote sono ancora vietate. Ce lo acconta molto bene Francesca Monzone in questo articolo apparso oggi sulle pagine de Il Messaggero.
Sognavano di andare alle Olimpiadi di Tokyo e di sentirsi come tutte le altre ragazze, ma il loro sogno è finito in tanti pezzi, così come le bici con le quali avevano scoperto la libertà. Loro sono le ragazze della nazionale femminile di ciclismo dell’Afghanistan, un gruppo di atlete che per affermare i loro diritti è costretto a lottare ogni giorno.
Questa è la storia di Rukhsar Habibzai che a soli 22 anni allena e coordina queste ragazze, che vivono tra Kabul, Balkh, Bamyan e Faryab. È anche la storia di Malika, Frozan, Zahra e Zhala, candidate al premio Nobel per la pace nel 2016 e che oggi vivono lontane dalla loro terra, perché costrette a scappare. A proteggere le cicliste afghane c’è anche un giovane uomo, è Fazli Ahmad Fazli, il presidente della loro Federazione Ciclistica. Rukhasar segue personalmente queste ragazze, che sono 75 in tutto il Paese. Lei vorrebbe cambiare la mentalità della sua gente, dove una donna che va in bici, ancora viene presa a sassate, perchè quella libertà, è per le donne occidentali e non per loro. «Anche io ho un sogno - ha detto Rukhasar- vorrei che il ciclismo diventasse parte della nostra cultura. Sarebbe bello vedere le nostre ragazze pedalare felici senza paura. Io sono una atleta e vorrei che a me e a tutte le donne venisse data la possibilità di allenarsi e gareggiare, perché noi possiamo vincere competizioni importanti».
LA PROVOCAZIONE. L’Afghanistan non è solo il Paese dei post talebani, è quella terra dove una donna che va in bici è un tabù, dà scandalo e disonora la famiglia: salire su un sellino viene visto come una provocazione sessuale.
Le ragazze di Rukhasar e Fazli Ahmad non porteranno la loro bandiera ai Giochi Olimpici di Tokyo. Quel progetto nato nel 2016, si è spento nel 2019, con una mancata qualificazione. Per qualificarsi 5 atlete dovevano prendere parte a gare ben precise, ma quelle bici ricevute in dono dalla giornalista statunitense Shannon Galpin, erano ormai troppo danneggiate per sostenere una gara.
Fazli Ahmad aveva chiesto aiuto all’Uci (Unione Ciclistica Internazionale) ma le nuove bici non sono mai arrivate. E allora l’Italia, con la sua Federazione, ha deciso di offrire un aiuto concreto alle atlete afgane.
Renato Di Rocco, presidente della Federazione Ciclistica Italiana e vice presidente della Uci, si impegnerà affinché per queste giovani venga attuato uno dei progetti finalizzato allo sviluppo dello sport nelle nazioni più deboli. «L’Italia e la nostra federazione saranno in prima linea per aiutare queste atlete. Chiederemo i visti per farle arrivare in Italia e fare degli allenamenti con i nostri tecnici e le nostre atlete. Chiariremo anche i motivi per i quali la nazionale afghana, non ha ottenuto i pass per Tokyo».
A coordinare sul campo ci sarà il tecnico Dino Salvoldi, responsabile del settore femminile e che da sempre si è battuto per le pari opportunità nello sport. L’Italia avrà un ruolo importante e farà da ponte con Bruxelles. Attraverso il premio «Combattività della donna», dedicato al ciclismo femminile, le ragazze dell’Afghanistan arriveranno a Bruxelles. Al Parlamento Europeo racconteranno la loro storia. Ad aiutarle ci sarà Guillaume Reynders, esperto avvocato nell’ambito del ciclismo internazionale. Rukhasar con le altre ragazze sanno i rischi che stanno correndo, raccontando la loro storia. Non vogliono più abbassare la testa e vogliono che venga rispettato il loro diritto alla libertà.